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Nuvole di fumo coprono Ras al Ain e Sere-Kaniye, al confine con la Turchia: i boati dei colpi di artiglieria e degli spari si odono anche a distanza. Qui la tregua negoziata ieri sera tra Washington e Ankara non è ancora arrivata: gli scontri tra l’esercito turco e le milizie curde proseguono.

A raccontarlo sono fonti locali che si trovano in prossimità delle due città, al confine tra la zona occupata dall’esercito turco e quella ancora nelle mani dei curdi delle Forze Democratiche Siriane (FDS). Diversi chilometri a ovest, le FDS hanno ceduto il passo: a Kobane e Manbij, sventolano le bandiere russe e quelle siriane del presidente Bashar al Assad. E adesso, dopo l’accordo di ieri sera tra il vicepresidente americano Mike Pence e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, le milizie curde dovranno liberare un’area di 33 chilometri dal confine turco in 120 ore. Solo cinque giorni. In cambio, Ankara si impegna a interrompere momentaneamente le operazioni di guerra. Ma Ras al Ain è un punto caldo: qui i combattenti curdi non sembrano intenzionati a mollare la presa.

A poche ore dalla tregua di ieri sera, c’è disaccordo anche sulla sua definizione. “Pausa” l’ha chiamata James Jeffrey, inviato speciale statunitense per la Siria. Il comandante delle milizie curde, Mazlum Kobani ha parlato di “cessate il fuoco”. E il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusolgu, è stato secco: “non è un cessate il fuoco. Faremo una pausa di 120 ore nelle operazioni per permettere alle milizie di andarsene… le operazioni finiranno solo quando avranno completamente abbandonato la regione”.

In queste ore di tregua i curdi stanno scendendo in piazza in diverse città: a Kobane manifestano contro l’aggressione turca, ma a Deir Ezzor, la città al confine tra la Siria di Assad e il territorio controllato dalle SDF, protestano contro l’imminente arrivo dell’esercito siriano e delle milizie filoiraniane, sue alleate. Il 10 ottobre il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, nel corso di un’intervista con la televisione di stato turca TRT, si era offerto come mediatore tra i curdi, Assad e i turchi. Un ruolo che Mosca, però, riesce a portare avanti anche da sola.

Le relazioni tra Turchia e Iran sono migliorate dopo il fallito colpo di stato turco del 2016, ma è stata l’occupazione statunitense del nord ovest della Siria ad averle cementate. E adesso il ritiro deciso da Trump è provvidenziale per entrambi: per Ankara, che si vede liberare dalla minaccia di uno stato curdo ai suoi confini, e per Teheran, che adesso può mettere le mani sui giacimenti di petrolio di Deir Ezzor e fare finalmente soldi con la ricostruzione della Siria. Gli appalti firmati con Damasco fino a oggi sono rimasti lettera morta per mancanza di fondi.

Poche ore prima dell’accordo tra Pence ed Erdogan cinque autobus carichi di miliziani sono entrati in Siria dal valico di Al Bukamal, sotto controllo iraniano: a bordo c’erano decine di sciiti iracheni, tutti appartenenti alle Forze di Mobilitazione Popolare, fedeli alleate di Teheran. In queste 120 ore di tregua non tutto, a quanto pare, si sta fermando. Non per niente il segretario di Stato Mike Pompeo, accanto a Mike Pence nelle ore di contrattazioni con Ankara, questa mattina è volato in Israele per aggiornare il primo ministro Benjamin Netanyahu sulla nuova situazione.

Tra l’altro, fa davvero specie il tempismo di questa tregua. Difficile non notarlo. Sì, perché al centro di questi cinque giorni di pausa dei combattimenti si colloca una festività molto importante. Il 19 e il 20 ottobre si svolgerà il pellegrinaggio di Arba’een: milioni di sciiti iraniani e iracheni si recheranno nella città di Karbala, in Iraq, per commemorare il martirio di Hussein ibn Ali, l’imam che ha dato inizio allo sciismo. Per 30 anni, sotto il regime del dittatore iracheno Saddam Hussein, nessuno ha potuto compiere il pellegrinaggio che è ripreso solo dopo l’invasione americana dell’Iraq.

Del resto, cinque giorni sono davvero pochi per l’evacuazione di migliaia di combattenti legati a un territorio nel quale hanno sempre vissuto. Che senso hanno allora le 120 ore proprio a ridosso di Arba’een? “Questo accordo è pessimo” racconta a LiberoReporter un giornalista curdo iracheno, Saman Mawlood, dalla città di Sulaymanyyiah, al confine con l’Iran. “Non è certo in favore dei curdi. E potete stare tranquilli… non è nemmeno stato rispettato”.

Monica Mistretta

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