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Teheran valuta le opzioni di risposta all’attacco Usa: da un’azione dimostrativa a un’escalation contro basi americane o nel Golfo

L’Iran è a un bivio. Dopo l’attacco statunitense contro i suoi siti nucleari, il regime di Teheran sta valutando come rispondere. Secondo fonti citate dall’Adnkronos, lo scenario “migliore” per la Repubblica islamica sarebbe una rappresaglia simbolica: un attacco missilistico dimostrativo contro una base americana, simile a quello del gennaio 2020, quando i Pasdaran colpirono due basi Usa in Iraq per “vendicare” l’uccisione del generale Qasem Soleimani.

Un’azione del genere, che possibilmente non causi vittime, permetterebbe al regime di mostrare fermezza all’opinione pubblica interna, evitando però un’escalation diretta con Washington. Allo stesso tempo, riaprirebbe uno spazio diplomatico per future trattative.

L’opzione più dura: colpire le basi americane nella regione

Se l’Iran decidesse per una risposta più aggressiva, 19 siti militari americani nella regione – di cui 8 permanenti – sarebbero potenziali bersagli. I Guardiani della Rivoluzione hanno già minacciato di “ridurre in cenere” le basi Usa e le navi nel Golfo, sfruttando il loro arsenale di missili a corto raggio e droni. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno potenziato le difese aeree e disperso la presenza navale per evitare concentrazioni vulnerabili.

Secondo il Guardian, Washington avrebbe persino avvertito che, in caso di una rappresaglia diretta, l’ayatollah Ali Khamenei potrebbe diventare un obiettivo militare. Un messaggio chiarissimo su quanto sarebbe alta la posta in gioco.

L’Asse della Resistenza e il rischio di reazioni indirette

Un’altra opzione per Teheran sarebbe quella di attivare l’Asse della Resistenza, ovvero le milizie e i gruppi alleati sparsi nella regione. Tuttavia, questa rete appare oggi logorata e meno efficace: gli Hezbollah libanesi sono stati duramente colpiti, gli Houthi yemeniti hanno appena siglato una tregua con gli Usa, e le milizie irachene sembrano poco inclini a intervenire.

Il leader di Kata’ib Hezbollah, Abu Ali al-Askari, ha lanciato minacce, ma secondo le fonti “le milizie attendono ordini da Teheran” e sanno che un’azione violenta le esporrebbe a una risposta devastante da parte americana.

Lo spettro dello Stretto di Hormuz e dei cyberattacchi

Tra le opzioni più rischiose figura anche un eventuale blocco dello Stretto di Hormuz, vitale per l’esportazione del petrolio iraniano. Teheran potrebbe tentare di minarlo, sequestrare navi o lanciare attacchi informatici. Ma queste mosse danneggerebbero lo stesso Iran, compromettendo l’export verso la Cina e innescando ritorsioni militari e sanzioni.

La minaccia di cellule dormienti e la “vendetta fredda”

Secondo Nbc News, prima dell’attacco, l’Iran avrebbe avvertito segretamente gli Usa tramite un intermediario al G7 in Canada, minacciando attacchi terroristici sul suolo americano tramite cellule dormienti.

Teheran potrebbe però scegliere una risposta dilazionata nel tempo. Il ministro degli Esteri Abbas Araghchi ha parlato di “conseguenze eterne”, lasciando intendere che la vendetta potrebbe arrivare anche a distanza di mesi, forse con azioni mirate contro Israele, obiettivo già nel mirino nelle ultime settimane.

Un equilibrio fragile e una finestra diplomatica sottile

Le prossime ore saranno decisive. Teheran si trova a gestire la pressione interna per una risposta forte e la consapevolezza dei limiti militari ed economici. Ogni opzione disponibile comporta rischi altissimi: di isolamento, di scontro diretto con gli Usa, o di un conflitto incontrollabile in tutto il Medio Oriente.

Una reazione calibrata, simbolica ma non devastante, resta lo scenario più realistico. Ma in un contesto teso e instabile come quello attuale, nessuna ipotesi può essere esclusa.

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(con fonte AdnKronos)

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