Covid, D’Arminio Monforte: “settimo giorno cruciale per capire come andrà”
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“Il periodo tra il settimo e decimo giorno dall’inizio dei sintomi Covid è cruciale per capire come andrà la malattia. L’arrivo in ospedale avviene quasi sempre in questa fase. E’ il momento in cui si verifica la ‘svolta’: si può proseguire in senso positivo oppure aggravarsi, a causa di una risposta violenta del sistema immunitario. Il danno è creato, infatti, dal sistema immunitario che cerca di eliminare il patogeno”. A spiegarlo all’Adnkronos Salute è Antonella D’Arminio Monforte, direttore di Malattie infettive, Asst Santi Paolo e Carlo di Milano, che spiega come sia cambiato, dall’inizio della pandemia, l’approccio medico a Covid-19.
“In questo anno – racconta – abbiamo imparato a riconoscere i pazienti che rischiano di aggravarsi. Siamo in grado, alla prima visita, di prevedere, sulla base di alcuni elementi, come le caratteristiche del paziente (obesità, ipertensione, grande anziano con patologie) gli esami del sangue e la Tac del torace, se il decorso andrà più o meno bene. Con tutte le eccezioni del caso, perché la medicina non è una scienza esatta”. Questo comporta poter gestire meglio la terapia.
“Utilizziamo gli antivirali, il remdesivir, quindi nella fase iniziale”, spiega ancora l’infettivologa. “E la distinzione tra fase iniziale e fase successiva è una conquista: non riuscivamo a farla prima – evidenzia – Ora invece abbiamo ben netta la differenza”. Presto “probabilmente potremo utilizzare gli anticorpi monoclonali, in casi lievi a rischio di andar male, che però hanno costi proibitivi. Per ora in Italia non si sono ancora visti”.
In questi mesi, ribadisce D’Arminio Monforte, “abbiamo individuato anche il momento cruciale nella storia del paziente con Covid, intorno al settimo/decimo giorno. Se si riesce ad abbassare la carica virale prima, con il remdesivir, la reazione sembra essere di minore entità. Abbiamo osservato che senza antivirali il problema può essere maggiore. Nel tempo abbiamo provato diverse terapie. A mano a mano abbiamo ‘sbattuto la faccia’ contro scogli vari, fino ad arrivare a selezionare le cure che oggi usiamo di più”.
Nelle terapie intensive “invece abbiamo utilizzato cortisonici e farmaci biologici che abbassano la tempesta citochinica, ma in maniera più mirata. Questo armamentario più razionale ha comportato una minor mortalità. L’altro elemento che ci ha aiutato a ridurre la mortalità è stato l’aver imparato a capire che tipo di ossigenazione è necessaria: quando mettere il casco, quando è il caso di intubare, quando serve ossigeno ad alto flusso. All’inizio non lo sapevamo gestire”, conclude l’infettivologa.
(AdnKronos)
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