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La figlia e la sorella di Zaki Mubarak Hasan

Morto suicida in carcere secondo le autorità turche; barbaramente torturato e ucciso, racconta la sua famiglia. La fine di Zaki Mubarak Hasan, il palestinese arrestato dalla polizia di Erdogan con l’accusa di spionaggio e trovato morto il 28 aprile nella sua cella della prigione di Silivri, alle porte di Istanbul, avrebbe potuto scatenare un altro caso internazionale come quello sollevato per la morte del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

Khashoggi

Ma su di lui e sulla sua fine sono ancora in pochi a scrivere. Quelli che lo fanno, lavorano tutti per quotidiani dell’Arabia Saudita o degli Emirati Arabi Uniti.

Noi abbiamo deciso di occuparcene dopo aver visto il referto medico consegnato dalle autorità turche alla famiglia di Zaki. È stato il fratello, Zakaria Mubarak, a girarcelo su Whatsapp dalla Bulgaria, dove risiede. Ci ha spinto anche il fatto che la figlia di Zakaria, il più attivo della famiglia nella ricerca della verità, pochi giorni fa è stata assalita a colpi di coltello da parte di persone sconosciute che le hanno intimato di invitare i suoi familiari a non occuparsi del controverso suicidio. Adesso la ragazza è in ospedale: si sta riprendendo.

I familiari raccontano che Zaki era partito dalla Bulgaria, dove risiedeva con il fratello, il 30 marzo. Il 3 aprile, a pochi giorni dall’arrivo ad Istanbul, di lui si erano perse le tracce. Poi, il 15 aprile, la prima doccia fredda: le autorità turche avevano fatto sapere di averlo arrestato insieme a un suo connazionale con l’accusa di spionaggio politico e militare per conto degli Emirati Arabi Uniti.
Zaki e l’altro detenuto palestinese, Samer Shaban, avrebbero confessato in carcere di essere a Istanbul per spiare cittadini arabi residenti in Turchia: in particolare, personaggi dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), di Hamas e della Fratelllanza Musulmana. Le autorità turche avevano aggiunto anche un dettaglio di non poco conto: stavano indagando sull’eventuale coinvolgimento di uno, due palestinesi nella morte di Khashoggi, ucciso il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul. L’uomo arrestato con Zaki, Samer, sarebbe arrivato in Turchia proprio pochi giorni dopo l’omicidio.

Il 28 aprile i familiari di Zaki ricevono la notizia della sua morte in carcere: si sarebbe suicidato nella sua cella impiccandosi alla porta del bagno con i suoi vestiti. L’ambasciata palestinese ad Ankara dirama uno scarno comunicato: “le autorità turche hanno eseguito un’autopsia sul corpo per scoprire le ragioni della morte e l’ambasciata sta attendendo il report finale”. Poi, il silenzio.

A questo punto la salma di Zaki avrebbe dovuto essere restituita alla moglie e ai figli, che vivono a Gaza. Ma c’è un inspiegabile ritardo: il corpo arriva all’aeroporto internazionale del Cairo solo il 13 maggio, quindici giorni dopo. Con la salma arriva anche il referto medico turco. Leggendolo (foto integrale alla fine dell’articolo), la famiglia riceve la conferma che qualcosa proprio non quadra. Il report del medico legale, che porta la data del 28 aprile, dice che Zaki è morto per aver ricevuto percosse. Spiega che il decesso è dovuto a circostanze ancora sconosciute. Una sezione del referto recita: “ci sono possibilità di ottenere maggiori informazioni?”. La risposta è no.

È a questo punto che la famiglia chiede una nuova autopsia da eseguire in Egitto. Il fratello Zakaria, che si è precipitato al Cairo, ha visto la salma. Il corpo è arrivato “vuoto”. Manca perfino la lingua. Ovunque ci sono segni di percosse e bruciature: colpi alla testa, ferite profonde sui piedi, segni di strangolamento sul collo. La versione del suicidio non regge.

Zakaria decide di andare fino in fondo e fa sapere di voler fare appello al governo francese perché metta sotto indagine le autorità turche sulla base dei risultati della nuova autopsia eseguita in Egitto. Risultati che saranno disponibili solo alla metà di giugno.

Il 25 maggio la figlia di Zakaria viene assalita a colpi di coltello a Sofia, in Bulgaria, dove risiede con il padre. Zakaria racconta al quotidiano saudita “Al Arabiya” che gli assalitori, parlando in dialetto palestinese, avrebbero detto alla figlia di essere disposti a uccidere tutti i membri della famiglia. “Dì a tuo padre che vi uccideremo tutti, se lui non si ferma”.

A Istanbul l’accusa di spionaggio per conto degli Emirati Arabi Uniti non è un buon biglietto da visita. Tra Turchia, Emirati ed Arabia Saudita i rapporti sono di fuoco: al centro delle tensioni c’è l’appoggio del presidente turco Recep Tayyip Erdogan ai Fratelli Musulmani, l’organizzazione protagonista delle cosiddette Primavere arabe. Ma non c’è solo questo. Dentro il caso Zaki potrebbe esserci anche la lotta tra le diverse fazioni palestinesi, tutte ugualmente attive in Turchia.

Zaki veniva dalla Striscia di Gaza dalla quale era scappato nel 2007, quando Hamas, l’organizzazione vicina alla Fratellanza Musulmana, con un colpo di mano l’aveva sottratta al controllo dell’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese. Zaki, che era un ufficiale dell’intelligence dell’Anp, nel 2007 si era trasferito prima a Ramallah, in Cisgiordania, poi in Bulgaria. Anche Samer Shaban lavorava per gli apparati di sicurezza dell’Anp e aveva lasciato Gaza nel 2007: era andato a lavorare presso l’ambasciata palestinese a Dubai, negli Emirati. Secondo la sua famiglia, era andato in pensione nel 2018. Ma secondo l’intelligence turca sarebbe un uomo tuttora vicino a Muhammad Dahlan, il rivale del presidente dell’Anp, Abu Mazen. Abu Mazen è anche il principale rappresentante dell’Olp: non è un caso se le autorità turche hanno fatto sapere che i due palestinesi arrestati a Istanbul stavano spiando i rappresentanti dell’organizzazione palestinese. Il tutto mentre il presidente Abu Mazen è sotto scacco, isolato dai suoi stessi storici alleati: Arabia Saudita ed Emirati prenderanno parte con i loro rappresentanti al workshop economico di Manama, in Bahrein, che Abu Mazen ha deciso di boicottare. È lì che l’amministrazione Trump si prepara a decidere il futuro economico dei territori palestinesi. E forse non solo quello.

L’ambasciata palestinese ad Ankara per ora sembra essersi mossa ben poco per i due connazionali finiti nella rete della polizia turca. Zakaria dice di aver contattato l’ambasciatore palestinese fin dai primi giorni di aprile, subito dopo la scomparsa del fratello Zaki, ma di non aver ricevuto alcun aiuto. Anzi, ha confessato che a un certo punto l’ambasciata ha smesso di rispondere alle sue chiamate.

Il corpo di Zaki è stato seppellito pochi giorni fa nella sua città, a Deir al Balah, nella Striscia di Gaza. Samer è ancora nel carcere turco di Silivri: i familiari temono per la sua vita.

Monica Mistretta

 

La foto del documento con i dati del referto medico turco sul corpo di Zaki

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