La corte d’Assise di Venezia ha emesso il verdetto: ergastolo per il giovane accusato del femminicidio avvenuto in novembre dello scorso anno
La corte d’Assise di Venezia ha condannato all’ergastolo Filippo Turetta per l’omicidio della sua ex fidanzata, Giulia Cecchettin, avvenuto l’11 novembre 2023. La sentenza è stata emessa al termine di una camera di consiglio durata ore. La corte ha escluso le aggravanti della crudeltà e dello stalking ma ha avvalorato la tesi sull’accusa per omicidio aggravato dalla premeditazione, sequestro di persona e occultamento di cadavere.
Un caso che ha scosso il Paese
Il delitto aveva suscitato profonda indignazione e acceso il dibattito pubblico sul tema della violenza di genere. Giulia Cecchettin, giovane laureanda in ingegneria biomedica, fu brutalmente uccisa con 75 coltellate, molte delle quali di difesa, mentre cercava di sfuggire al suo assassino.
Secondo quanto ricostruito durante il processo, Turetta avrebbe pianificato l’omicidio nei minimi dettagli. Nei giorni precedenti il delitto, aveva acquistato coltelli, nastro adesivo, sacchi neri e cartine stradali per preparare la fuga. Dopo aver aggredito Giulia a Vigonovo (in provincia di Venezia), a pochi passi dalla casa della giovane, l’aveva costretta a salire in auto, infierendo ulteriormente su di lei fino a terminarla nella zona industriale di Fossò (Venezia). Il corpo della ragazza fu ritrovato giorni dopo, abbandonato vicino al lago di Barcis.
La requisitoria e le motivazioni della condanna
Durante il processo, il pubblico ministero Andrea Petroni aveva definito l’omicidio come “l’ultimo atto di controllo” esercitato da Turetta sulla vittima, evidenziando la sua condotta manipolatoria e ossessiva. La corte ha accolto in pieno la richiesta dell’accusa di infliggere il massimo della pena, riconoscendo nella premeditazione e nella crudeltà elementi decisivi per il verdetto.
La difesa, invece, aveva cercato di far leva sulla giovane età dell’imputato e sull’assenza di precedenti penali, sostenendo che l’ergastolo sarebbe stato una pena “inumana”. Tuttavia, la corte ha rigettato questa linea argomentativa, sottolineando la gravità del crimine commesso.