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Decine di migliaia di morti e rifugiati, centinaia di dispersi, famiglie che cercano congiunti inghiottiti per sempre dalle carceri del presidente Bashar Al Assad. E poi ancora, un numero imprecisato di vittime finite nelle mani di milizie di ogni genere al soldo di Turchia, Iran e potenze del Golfo. La Siria nell’ottavo anno di guerra è in macerie e nessuno è disposto a investire nella ricostruzione di un paese ancora sotto sanzioni europee e statunitensi. Luce, acqua, gas sono un privilegio per pochi.

I giacimenti di gas e petrolio, che pure ci sarebbero, sono quasi tutti nelle mani delle milizie curde sostenute dagli Stati Uniti nella zona a est di Deir Ezzor. Per ora, Russia e Iran, i due paesi che hanno permesso al presidente Bashar Al Assad di restare in piedi, pensano ad aggiudicarsi i contratti per il controllo di porti e aeroporti e a fare affari, non certo a ricostruire le case distrutte.

A fine mese ci sarà il primo incontro del Comitato istituzionale messo faticosamente in piedi da Russia e Turchia: esponenti del regime di Assad e gruppi di opposizione proveranno a parlarsi sotto l’egida dell’Onu. Ma al dialogo in Siria non crede più nessuno.  La guerra sul campo, con le sue operazioni militari e i sabotaggi, prosegue ogni giorno, non solo nel nord del paese, a Idlib, dove le milizie vicine ad Ankara resistono ai bombardamenti dell’aviazione russa, o nella provincia di Deir Ezzor, dove il regime è faccia a faccia con le milizie curde, ma anche alle porte di Damasco.

Ieri decine di uomini delle Guardie rivoluzionarie islamiche iraniane e miliziani libanesi di Hezbollah si sono presentati all’ospedale al Mawasa, nella capitale, con i sintomi di un avvelenamento. Le agenzie di stato siriane, che hanno dato la notizia, hanno parlato di acqua avvelenata in uno dei sobborghi della zona sud di Damasco, dove le Guardie rivoluzionarie islamiche starebbero cercando di costruire un vero e proprio distretto militare.

È questa la zona dove negli ultimi mesi si sono concentrati gli attacchi di Israele. Ed è qui che i russi stanno valutando la possibilità di costruire un nuovo aeroporto per far ripartire il traffico aereo nella capitale e incoraggiare gli investimenti nel paese. La presenza dell’Iran e delle sue milizie, con il loro progetto alternativo, piace pochissimo a Mosca: per questo i russi hanno bloccato l’accesso delle strade che portano a sud di Damasco a tutte le milizie filoiraniane. Nella capitale, a pochi giorni dal primo incontro del comitato costituzionale, la guerra sotterranea prende le sue vie.

Non che i rapporti tra Mosca e Teheran siano compromessi, anzi. Ci si scontra in una zona, si collabora in un’altra. Ieri, mentre alle agenzie di stato siriane arrivavano i primi report dell’avvelenamento a Damasco, le aviazioni di Siria, Russia e Iran stavano partecipando a un’esercitazione congiunta a ovest di Deir Ezzor, a pochi passi dagli impianti petroliferi sotto il controllo delle milizie curde alleate degli Stati Uniti. E poche ore prima un cargo siriano, un Ilyushin proveniente da Teheran, atterrava nella base T4 accanto agli hangar dell’aviazione russa. Sono questi gli aerei che da otto anni portano in Siria uomini e armi dall’Iran. E a Mosca, che vuole limitare le perdite tra le proprie truppe, sta benissimo.

La guerra siriana è così: un coacervo di interessi dove sono presenti tutte le potenze regionali e dove ciascuno porta avanti la sua agenda politica in totale autonomia. Costi quello che costi. Nei prossimi giorni forse non sapremo più nulla del misterioso avvelenamento a Damasco. Ce ne dimenticheremo, come è accaduto per la celebre petroliera Adrian Darya I, sfuggita ai radar dei media [La partita a scacchi dell’Adrian Darya 1 (ex Grace 1)], che ieri si trovava al largo di Baniyas, a pochi passi da una delle più grandi raffinerie siriane, pronta a scaricare il suo greggio. Da quando la nave era ferma sotto sequestro nello stretto di Gibilterra, i giochi sono evidentemente cambiati. Adesso la sua sorte non importa più a nessuno.

Monica Mistretta

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