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La recente escalation di attacchi tra Israele e gli alleati iraniani solleva questioni di sicurezza nazionale e richiede una risposta internazionale coordinata

Più di 330 droni, missili e razzi non rappresentano solo un casus belli, ma una vera e propria dichiarazione di guerra. Fin dai primi giorni successivi al 7 ottobre, ho sostenuto che questo non è un conflitto isolato di Israele contro Hamas o l’Iran, ma dovrebbe essere considerato come un confronto tra il mondo libero e le forme più estreme e violente dell’Islam. Sfortunatamente, mentre Israele si erge a baluardo contro questa barbarie, le piazze del mondo occidentale si levano in protesta contro di noi. È un copione già visto: inizialmente gli ebrei vengono massacrati e la comunità internazionale mostra empatia e sostegno, affermando che Israele ha il diritto di difendersi. Poi, dopo pochi giorni, si assiste a un’inversione di tendenza e veniamo accusati di aggressione, persino di genocidio“, afferma il professor Kobi Michael, ricercatore senior presso l’INSS, l’Istituto Israeliano per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, in un’intervista esclusiva con l’Adnkronos.

Oggi assistiamo allo stesso fenomeno: abbiamo visto il collasso totale della deterrenza americana nella regione mediorientale, con un attacco senza precedenti per dimensione e coordinazione tra tutti i proxy iraniani. Nonostante ciò, ci viene chiesto di mantenere un atteggiamento pacificatore. Se reagiamo con fermezza, come sarebbe nostro diritto, il mondo occidentale si schiererà contro di noi, e a Teheran si faranno beffe della situazione. Addirittura, ieri hanno minacciato gli alleati di Israele, intimandogli di non reagire all’attacco. Più ci si mostra deboli di fronte all’asse iraniano, più esso si radicalizza”, prosegue il professor Michael.

A poche ore da questo evento storico, la richiesta della comunità internazionale a Israele è di limitarsi a intercettare e abbattere droni e missili, anche con il supporto aereo di Stati Uniti, Regno Unito e persino Giordania, e di non reagire. Invece, dovremmo immediatamente lavorare alla creazione di una nuova architettura regionale con due obiettivi chiave: affrontare efficacemente la questione palestinese e contrastare l’asse iraniano”, aggiunge il professore.

Interrogato sulla possibilità di includere l’Arabia Saudita nella nuova alleanza regionale, insieme al gruppo degli Accordi di Abramo, la risposta del professor Michael è decisa: “Certamente, ormai è evidente che i sauditi potrebbero essere i prossimi obiettivi. Lo sono stati già nel 2019, quando droni iraniani hanno colpito le strutture della Saudi Aramco. All’epoca furono solo 20 velivoli senza piloti. Ora, le capacità distruttive di Teheran sono aumentate in modo esponenziale”, precisa Michael.

Quando si chiede all’esperto di sicurezza nazionale quale sarebbe la mossa più giusta per Israele, la risposta è chiara: “Colpire l’Iran nel suo territorio, magari nelle infrastrutture usate per la costruzione dei droni impiegati per attaccare gli ucraini e dagli Houthi per assaltare navi civili nel Mar Rosso. È inconcepibile che una coalizione potente come quella guidata dagli Stati Uniti permetta che il commercio globale venga destabilizzato da una fazione minore come gli Houthi. L’Iran non ha la nostra capacità di rispondere a un attacco mirato, né sul piano della contraerea né dei jet da guerra. È giunto il momento che gli iraniani comprendano che agire da prepotenti nella regione comporta un prezzo elevato. L’Iran non è più solo una potenza regionale, ma una minaccia globale capace di seminare il caos in un’area vastissima. Se non viene punita, la sua impunità farà crollare il sistema di deterrenza internazionale”, conclude il professor Michael.

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(con fonte AdnKronos)

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