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La flat tax, quella vera, quella che sostituirebbe gli scaglioni dell’Irpef, difficilmente si potrà mai fare, al netto delle promesse elettorali. Ha due problemi sostanziali: costa tantissimo, perché erode buona parte del gettito attuale e fa perdere al sistema qualsiasi progressività, diventando molto probabilmente incostituzionale. Il rischio è di violare l’articolo 53 della Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Si chiama tassa piatta, del resto, proprio perché appiattisce il prelievo fiscale e lo rende uguale per tutti, in percentuale sul reddito, indipendentemente da quanto si guadagna.

Quando si parla di flat tax in relazione ai programmi del governo Meloni, ci si deve attenere alle parole con cui il premier l’ha presentata, nel suo intervento programmatico e, più dettagliatamente, nelle repliche al Senato: prima ha difeso il concetto di flat tax, con l’estensione della soglia di reddito a 100mila euro, poi ha aggiunto la flat tax incrementale, “la tassa piatta sull’incremento di reddito rispetto al massimo raggiunto nel triennio precedente: una misura virtuosa, con limitato impatto per le casse dello Stato, che può essere un forte incentivo alla crescita”.

Il punto di partenza è la situazione attuale. Esiste una flat tax del 15% per le partite Iva, con reddito lordo fino a 65mila euro. L’intenzione è quella di aumentare la soglia fino a 100mila euro. L’altra misura annunciata riguarda tutti, a prescindere dal reddito: la flat tax al 15% (ma l’aliquota potrebbe cambiare) si applicherebbe sull’incremento del reddito rispetto al triennio precedente. Quindi una quota di reddito viene tassata in maniera tradizionale, secondo gli scaglioni previsti, e la quota incrementale con la flat tax. Un modo, ha argomentato Meloni, “per premiare il merito. Chi fa di più è giusto che venga premiato”.

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