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L’amministrazione Trump delinea il suo piano di pace che ovviamente i palestinesi rifiutano… Ma altri paesi arabi spingono affinché l’uomo piccolo piccolo, Abu Mazen, dia il via libera, perché il piano di pace è un piano “energetico”: tra gas e petrolio

A guardare quella mappa vengono in mente le costruzioni colorate collegate da ponti volanti nei parchi giochi per bambini. Solo che quella è la mappa tanto attesa che l’amministrazione Trump ha presentato per la creazione di un futuro stato palestinese e la definizione di confini stabili con Israele.

Ben inteso, non si parla ancora in concreto di stato palestinese, ma della possibilità di stabilirne uno entro quattro anni. Il tutto ammesso che la leadership di Ramallah, che solo venti anni fa ha rifiutato uno stato in Cisgiordania con Gerusalemme est capitale, sia disposta ad accettare l’offerta americana. Tra vent’anni magari ne arriverà un’altra peggiore cui piegarsi una volta per tutte.

L’uomo piccolo di Ramallah

Abu Mazen ha rigettato fin dal principio il piano di pace, sa di non poter accettare uno stato demilitarizzato interamente circondato da territorio e checkpoint israeliani: a est la Valle del Giordano, a ovest gli insediamenti nei pressi di Gerusalemme e dentro la sua futura nazione anche qualche piccola enclave collegata da strade sotto controllo altrui. Come capitale, un modesto sobborgo di Gerusalemme est: Abu Dis. L’offerta rifiutata da Arafat a Camp David è ormai un sogno.

E la gente è stufa: le proteste in Cisgiordania e a Gaza per ora sono state poche e di facciata. Nessuno ha voglia di sacrificarsi per una leadership che alla resa dei conti ha difeso solo se stessa, al massimo ha fatto favori a familiari e accoliti. Anche la manifestazione di unità tra le fazioni palestinesi, che ieri erano tutte presenti al discorso di Abu Mazen a Ramallah, è destinata a durare come un fuoco di paglia: le elezioni nei territori li vedono gli uni ferocemente contro gli altri e perfino le fazioni all’interno di Fatah sono pronte a combattersi tra loro armi alla mano, come dimostra lo sventato attacco di pochi giorni fa al capo della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, Maged Faraj.

E nessuno conti sui paesi arabi: Egitto, Arabia Saudita e Qatar hanno invitato i palestinesi a prendere in considerazione il piano di Trump. Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Oman erano presenti con i loro ambasciatori alla cerimonia di presentazione del piano a Washington come suggello ufficiale in lingua araba in sostituzione della leadership di Ramallah, del tutto assente.

La bocca della verità

Forse la cosa più brillante su questo piano di pace l’ha detta Michael Oren, ex ambasciatore israeliano a Washington. In un’intervista a F ox News ha dichiarato che gli interlocutori di questo “Accordo del secolo” sono due: gli israeliani e i paesi arabi sunniti. Non certo i palestinesi, a dir poco irrilevanti.

Basta dare un’occhiata agli eventi che hanno fatto da sfondo a queste ore concitate di proclami, rifiuti, smentite e minacce sferrate davanti alle telecamere. Quegli eventi portano a qualcosa di più concreto: alla lotta in corso in Medio Oriente per il controllo degli assi energetici tra il Golfo Persico, l’Iraq e il Mediterraneo, assi ai quali la leadership di Ramallah non può nemmeno affacciarsi come spettatore.

Il piano di pace “energetico”

Uno di questi eventi è accaduto domenica in Siria: truppe statunitensi hanno bloccato un convoglio russo che tentava di raggiungere alcuni impianti petroliferi di Rumeylan nel nord est del paese. Poco dopo Mosca ha spedito sul luogo un elicottero, Washinton ne ha mandati due e i russi si sono ritirati.

L’Iraq, con le sue immense risorse energetiche, resta nella morsa dello scontro tra Stati Uniti e Iran: domenica sera tre razzi hanno colpito l’ambasciata americana a Baghdad, l’ultimo di una serie di attacchi che vanno avanti ormai da due mesi. E mentre Washington accusava direttamente Teheran, sulla stampa internazionale faceva notizia un’indiscrezione da fonti israeliane: gli Stati Uniti starebbero costruendo alcune basi militari semipermanenti al confine tra Iraq e Iran, a Sulaymanyiah, ad Halabja e a sud di Erbil, tutte zone a maggioranza curda.

Altro che ritiro Usa

Negli ultimi otto mesi le truppe statunitensi nella regione sono aumentate di 20.000 unità, a dispetto dei reiterati proclami di ritiro. Il progetto della destra americana è noto da tempo: escludere l’Iran dalle rotte energetiche del Medio Oriente e rendere marginale il Golfo Persico creando due direttrici alternative che faranno perno sull’Iraq e le sue risorse. Una direttrice correrà sull’oleodotto in costruzione che dai giacimenti di gas e petrolio di Bassora porterà al porto di Aqaba, attraversando Iraq e Giordania. L’altra è già una realtà: l’oleodotto che dalla regione del Kurdistan e dai giacimenti di Kirkuk porta in Turchia e dritto in Europa. Rumeylan nel nord della Siria si trova su questa direttrice.

Per realizzare l’ambizioso progetto energetico, gli stati arabi sunniti devono salire tutti sul carro. Israele, che agli inizi di gennaio ha iniziato a esportare gas in Egitto e Giordania, sul carro c’è già ben salda. Michael Oren ci ha visto giusto: i veri interlocutori del piano di pace sono questi.

MONICA MISTRETTA

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