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Alla quinta volta, il 73enne Benyamin Netanyahu ce l’ha fatta. Ex premier più longevo e divisivo d’Israele, “King Bibi” ha ottenuto la maggioranza sufficiente per formare un governo stabile dopo che il paese è andato alle urne per la quinta volta in 43 mesi, in elezioni che ogni volta sono state un referendum sulla sua persona. Per vincere, Netanyahu si è però spostato molto più a destra, alleandosi con il controverso partito estremista Sionismo Religioso, oltre che con i due partiti ultraortodossi.

Primo ministro fra il 1996 e il 1999, Netanyahu lo è stato di nuovo per 12 anni consecutivi fra il 31 marzo 2009 e il 13 giugno 2021. Il lungo stallo politico israeliano era iniziato nel 2018, quando l’alleato Avigdor Lieberman, del partito nazionalista della destra laica, ruppe con Netanyahu sulla questione del servizio militare per gli ultraortodossi. Da allora è stato un susseguirsi di elezioni senza un risultato chiaro, con l’impossibilità di formare un governo stabile con o senza Netanyahu, che nel frattempo è riuscito a rimanere premier con alleanze fragili o mantenendo l’interim.

Sotto processo per tre vicende di corruzione, Bibi si è sempre detto innocente e ha rifiutato di dimettersi dai suoi incarichi. Abile e spregiudicato, Netanyahu è riuscito negli anni a relegare ai margini gli altri leader politici che hanno cercato di scalzarlo alla guida della destra, come Lieberman il cui partito è ridotto a 5 seggi, Naftali Bennett che ha lasciato la politica a luglio e il cui partito Focolare Ebraico è rimasto fuori dalla Knesset. Il partito dei dissidenti del Likud Nuova Speranza è fallito, mentre leader moderati che in passato si sono alleati al governo con Netanyahu – compresi gli avversari di oggi Yair Lapid e Benny Gantz -hanno rotto ogni rapporto con lui.

Nel giugno 2021, un’ampia coalizione di otto partiti di destra, centro e sinistra, compreso per la prima volta un partito arabo, ha scalzato “King Bibi’ formando il “governo del cambiamento”. Ma la coalizione era troppo eterogenea e si è sfaldata lo scorso luglio. Alle elezioni di ieri, il partito Yesh Atid del premier ad interim Lapid si è piazzato come seconda forza politica del paese, ma il frammentato campo anti Netanyahu non è stato in grado di unirsi. A sinistra, lo storico partito radicale Meretz non è riuscito ad entrare in parlamento e i laburisti hanno ottenuto solo quattro seggi.

Netanyahu si avvia così a tornare nuovamente premier, dopo un breve passaggio all’opposizione, che non lo ha certo fiaccato. Lui “è pronto a morire per il potere. Gli altri no”, scrisse una volta Haaretz. Come premier, Netanyahu dovrà però guidare un paese fortemente diviso. Pur di vincere si è spostato sempre più a destra, appoggiando una visione di stato ebraico, nazionalista e religioso, che marginalizza gli arabo israeliani, pari al 20% della popolazione, ed è respinto dall’elettorato laico e i ceti urbani. Bibi ha già detto che intende “neutralizzare” gli accordi sui confini marittimi appena raggiunto col Libano, come rivendica di aver fatto a suo tempo con gli accordi di pace di Oslo con i palestinesi.

E se il risultato di oggi allontana ancora di più il governo israeliano dai palestinesi, l’alleanza di Netanyahu con Sionismo Religioso potrebbe mettere a rischio anche gli accordi di Abramo. Gli Emirati Arabi Uniti hanno già avvertito di vedere con preoccupazione l’eventuale l’ingresso al governo del partito di estrema destra, accusato di xenofobia anti araba.

Netanyahu ha vinto grazie all’alleanza con Sionismo Religioso, ma si tratta di un alleato molto ingombrante. Itamar Ben Gvir, uno dei leader più controversi del partito, non fa mistero di volere la poltrona di ministro della Sicurezza Interna, che controlla la polizia, e potrebbe quindi trovarsi a gestire l’ordine pubblico a Gerusalemme. Infine, sul piano internazionale, Netanyahu non più contare sull’amico Donald Trump negli Stati Uniti. Il nuovo presidente americano Joe Biden, sostiene Israele, ma è politicamente molto lontano da lui. Mentre la vecchia amicizia con il leader del Cremlino Vladimir Putin diventa imbarazzante alla luce della guerra in Ucraina.

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