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La protezione conferita dai vaccini anti Covid dura a lungo, secondo uno studio condotto a Torino su 10mila volontari dipendenti dell’azienda ospedaliero-universitaria Città della Salute e della Scienza (Css) e dell’università cittadina (UniTo). Dalla ricerca emerge che la positività al test sierologico che misura i livelli di anticorpi IgG contro Sars-CoV-2 è presente nella quasi totalità dei vaccinati (99,8%), e che la persistenza di una risposta cellulare complessiva è superiore al 70% a 8 mesi di distanza dalla vaccinazione.

L’indagine è stata progettata da Css a partire dall’aprile 2020, è stata successivamente estesa al personale UniTo e si è svolta in due fasi. La prima, i cui dati sono stati pubblicati su ‘Viruses’, è stata portata avanti fra maggio e agosto 2020 con l’obiettivo di stimare la proporzione di soggetti entrati in contatto con il coronavirus pandemico durante la prima ondata. Tra i dipendenti Css la prevalenza di positivi al test è risultata pari al 7,6%; tra quelli di UniTo del 3,3%, valore simile a quello stimato nella popolazione generale del Piemonte dall’indagine condotta dall’Istat a maggio 2020.

Le percentuali emerse – spiega una nota – hanno documentato che “i dipendenti del comparto sanità hanno avuto, almeno durante i primi mesi della pandemia, un rischio aumentato di contrarre l’infezione rispetto al resto della popolazione”, e hanno confermato “l’importanza della precoce adozione di idonee misure preventive (incluso l’uso standardizzato di adeguati dispositivi di protezione individuale) per il contenimento della diffusione dell’infezione, spesso asintomatica, tra gli operatori sanitari”.

La seconda fase dello studio, condotta a maggio 2021, aveva come obiettivo principale la valutazione della risposta immunitaria alla vaccinazione anti-Covid, misurata su tutta la coorte attraverso la positività al test sierologico e, su un sottocampione di 419 persone selezionate casualmente, anche attraverso indagini di immunità cellulare.

Il primo elemento osservato è stato che “la positività al test sierologico (ovvero la presenza di livelli di anticorpi circolanti superiori a 33,8 Bau/ml) era presente nella quasi totalità dei soggetti vaccinati (99,8%)“, riporta la nota. Sul sottocampione di 419 persone selezionate random fra i partecipanti alla seconda fase sono stati quindi condotti due approfondimenti. Il primo era “mirato a valutare la risposta immunitaria cellulare Sars-CoV-2 specifica, rilevata nel periodo luglio-ottobre 2021. E’ noto – ricordano infatti gli esperti – che la risposta immunitaria a un agente infettivo virale, oltre che attraverso la produzione di specifici anticorpi circolanti, avvenga attraverso l’attivazione di particolari cellule (linfociti T), e alcuni dati preliminari sembrano suggerire che la risposta immunitaria cellulare contro Sars-CoV-2 sia di lunga durata: i primi risultati osservati nello studio indicano la persistenza di una risposta cellulare complessiva superiore al 70% a 8 mesi di distanza dalla vaccinazione”.

Il secondo approfondimento era invece “finalizzato a valutare se la diversa risposta individuale al vaccino potesse essere messa anche in relazione alla variabilità genetica individuale. Ogni individuo presenta infatti una variabilità in circa l’1% delle lettere del Dna, che lo fanno unico e differente dagli altri. Questa variabilità genetica spiega anche come la nostra risposta immunitaria abbia un’efficacia diversa. Fra tutte le caratteristiche genetiche scritte nel genoma (circa 23mila), i ricercatori si sono concentrati su un gruppo di geni, Hla (Human Leucocyte Antigens), che consentono di costruire alcune molecole espresse sulle nostre cellule, comprese quelle del nostro sistema immunitario. Queste ultime hanno il compito di proteggerci dagli intrusi, attivando la risposta degli anticorpi contro i bersagli estranei (ad esempio virus, batteri e vaccini). Quale sia il bersaglio lo definiscono proprio le molecole Hla, e quindi la variabilità di queste molecole ci aiuta a capire la diversità che osserviamo nella popolazione in relazione alla quota di anticorpi prodotti contro il virus a seguito della vaccinazione”.

Ebbene, “l’approfondimento ha mostrato come alcune varianti siano più frequenti in coloro che hanno dimostrato una più bassa produzione di anticorpi, rispetto a coloro in grado di sviluppare una risposta anticorpale più consistente”.

(AdnKronos)

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