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Dal misterioso focolaio del 2017 in Nigeria alla dichiarazione di emergenza sanitaria mondiale: la storia non raccontata del virus del vaiolo delle scimmie

Il 1° maggio 2017, nell’ospedale universitario di Port Harcourt, nel sud della Nigeria, la dermatologa Bolaji Otike-Odibi si trovò di fronte a un caso clinico che avrebbe segnato l’inizio di una nuova e oscura pagina nella storia delle malattie infettive: un uomo di 35 anni con lesioni cutanee su tutto il corpo e un’ulcera profonda nelle parti intime. Nonostante i numerosi test, le malattie più comuni come la varicella e la sifilide furono escluse, lasciando la specialista perplessa. “Era qualcosa che non avevamo mai visto prima”, ricorda Otike-Odibi. Quell’uomo, con una storia sessuale complessa e una recente esperienza di preservativo rotto, fu solo il primo di una serie di pazienti con sintomi simili.

Nel giro di pochi mesi, altri tre uomini si presentarono con lo stesso inquietante profilo clinico, tutti positivi all’HIV e con lesioni simili. “Eravamo preoccupati si trattasse di un’epidemia”, racconta Otike-Odibi, che iniziò a documentare i casi con fotografie e testimonianze. Nonostante i segnali evidenti, il misterioso virus continuò a diffondersi inosservato, silente, nelle regioni meridionali della Nigeria. Solo quando, nel settembre dello stesso anno, un’ondata di pazienti con sintomi analoghi raggiunse un ospedale a Yenagoa, capitale dello stato di Bayelsa, a circa tre ore di macchina da Port Harcourt, i medici riuscirono a fare una diagnosi: vaiolo delle scimmie, una malattia virale che fino ad allora era stata documentata solo tre volte in Nigeria. La scoperta fece scattare un campanello d’allarme tra i medici locali, ma non riuscì a attirare l’attenzione della comunità sanitaria internazionale.

Cinque anni dopo, il virus Mpox – come è stato successivamente rinominato per evitare lo stigma associato al termine “vaiolo delle scimmie” – esplose in una pandemia globale, colpendo in particolare gli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM). La malattia, che portò l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a dichiarare una nuova emergenza sanitaria globale nel giro di soli due anni, ha colpito quasi 100.000 persone in 116 Paesi. Eppure, la sua diffusione è avvenuta in un silenzio inquietante, lontano dai radar della sanità pubblica, per almeno due anni prima che Otike-Odibi vedesse quei primi pazienti nel 2017.

Molti si chiedono come sia stato possibile ignorare un’epidemia che si stava chiaramente sviluppando. Perché la trasmissione sessuale, mai documentata prima del 2017, non ha ricevuto l’attenzione che meritava? E soprattutto, l’epidemia nigeriana avrebbe potuto essere fermata prima che diventasse una minaccia globale?

Queste domande sono oggi più urgenti che mai, soprattutto alla luce della nuova epidemia separata scoppiata nel 2024 nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), dove una nuova e più letale variante del virus, il clade 1b, si è diffusa rapidamente in una città mineraria e ha attraversato i confini di Paesi come Uganda, Burundi, Ruanda e Kenya, che non avevano mai visto casi di Mpox prima d’ora. Solo il 15 agosto scorso, la Svezia ha segnalato il primo caso europeo di questa nuova variante, trasmesso da una persona rientrata dall’Africa.

Le radici di questa storia risalgono a decenni fa. Il virus, scoperto per la prima volta in scimmie asiatiche in un laboratorio danese nel 1958, è stato inizialmente battezzato come “vaiolo delle scimmie”. Tuttavia, gli ospiti naturali del virus sono piccoli roditori delle foreste africane, come i ratti marsupiali del Gambia e gli scoiattoli. La prima epidemia umana documentata risale al 1970, in un bambino di 9 mesi nella RDC. All’epoca, l’OMS concluse che la malattia non rappresentava una grave minaccia per la salute pubblica, e nel 1980, dopo l’eradicazione del vaiolo, si decise di sospendere anche la vaccinazione, che avrebbe potuto forse fungere da scudo contro Mpox.

Negli anni successivi, diverse epidemie locali di Mpox furono registrate, ma si esaurirono senza mai destare particolari preoccupazioni internazionali, fino a quando nel 2003 l’epidemiologa Anne Rimoin, collaborando con il microbiologo Jean-Jacques Muyembe nella RDC, ipotizzò che il virus fosse più diffuso di quanto si pensasse. Le sue ricerche rivelarono un’incidenza crescente di infezioni, soprattutto tra coloro che non avevano ricevuto il vaccino contro il vaiolo. Tuttavia, fu l’epidemia del 2017 in Nigeria a segnare un punto di svolta. I casi si moltiplicarono, ma la risposta internazionale fu tardiva e insufficiente.

Nel maggio 2022, i casi di Mpox iniziarono a emergere in Europa, in particolare in Portogallo, Spagna e Regno Unito, quasi tutti tra uomini che hanno rapporti sessuali con uomini. Gli studi più recenti, condotti dai biologi evoluzionisti Áine O’Toole e Andrew Rambaut dell’Università di Edimburgo, hanno concluso che la trasmissione sostenuta da uomo a uomo era in corso “almeno dal 2017”. La comunità scientifica si chiede ora se il mondo avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle scoperte fatte in Nigeria.

Mentre il virus continua a diffondersi, Jean Kaseya, direttore generale dell’Africa CDC, ha dichiarato un’emergenza sanitaria continentale, sottolineando l’importanza di un’azione collettiva per fermare la diffusione della nuova variante clade 1b. Il suo avvertimento è chiaro: se non si affronta l’Mpox con la serietà necessaria, il mondo potrebbe trovarsi di fronte a una nuova e pericolosa ondata epidemica.

La situazione italiana

In Italia, alla data dell’8 agosto 2024, il Ministero della Salute ha confermato 1.056 casi di Mpox dall’inizio della pandemia, con un picco nell’estate del 2022. Fortunatamente, non sono stati segnalati casi del clade 1, la nuova variante del virus. Tuttavia, le autorità sanitarie hanno emesso una circolare per sensibilizzare medici e operatori sanitari sui possibili segnali d’allarme e per rafforzare le misure di protezione. Il vaccino attualmente utilizzabile in Italia è l’Imvanex, somministrato per via sottocutanea.

Il Ministero ha inoltre raccomandato ai viaggiatori di evitare eventi di massa nei Paesi colpiti dal clade 1 e di essere consapevoli dei rischi associati al viaggio in queste regioni. L’obiettivo è prevenire ulteriori contagi e proteggere sia i viaggiatori che le comunità a rischio.

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(con fonte AdnKronos)

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