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Il biennio 2020-2021 doveva segnare la svolta nella lotta ai rifiuti di plastica ma il Covid ha riacceso la sfida: 7 miliardi di mascherine vengono usate ogni giorno. La sola Ue ne consuma circa 900 milioni al giorno. Circa 2.700 tonnellate quelle che finiscono tra i rifiuti (o disperse in natura). Peraltro, essendo costituite da plastica composita e potenzialmente infette, non possono essere avviate al recupero e riciclo.


In acqua, le mascherine tendono a galleggiare, ma ne esistono di più pesanti, che affondano o restano sospese a tutte le profondità. Sono stati già osservati pesci, tartarughe, mammiferi marini e uccelli che le hanno ingerite intere o sono rimasti vittime degli elastici. La mascherina, inoltre, dopo poche settimane di permanenza nell’ambiente si frammenta in microfibre, che possono accumulare e rilasciare sostanze chimiche tossiche e microrganismi patogeni.

Ciò che si è dimostrato necessario per la salvaguardia della nostra salute ha un caro prezzo per l’ambiente. Se la sfida per fermare l’inquinamento da plastica non era facile prima del Covid, lo è ancora di meno ora. A lanciare l’allarme, a oltre un anno dall’inizio della pandemia, è il Wwf nel suo ultimo paper “La lotta al Covid frena quella all’inquinamento da plastica”.

Non solo mascherine. Il Covid spinge anche i consumi di plastica come effetto dei cambiamenti nelle abitudini di acquisto: se pre-pandemia si stimava intorno al 40-45% il consumo di prodotti confezionati rispetto allo sfuso, con la pandemia si è arrivati al 60%. Il 46% delle persone che prima prediligeva lo sfuso è tornata ad acquistare prodotti imballati.

Questo si spiega soprattutto con la cosiddetta ‘safe attitude’, cioè il ritenere più sicuri da contaminazioni i prodotti confezionati: i consumatori si sono trovati di fronte al dilemma tra sicurezza e ambiente, sebbene ad oggi non sia stato segnalato alcun caso di trasmissione del virus attraverso il consumo di alimenti. Esistono invece studi che dimostrano come il Sars-CoV-2 sopravviva più di tutti sulla plastica (7 giorni), sebbene non sia dimostrata la trasmissione dell’infezione da imballaggi contaminati.

I lockdown hanno stimolato anche gli acquisti online e con essi gli imballaggi plastici dei prodotti e i servizi di consegna di cibo, aumentati in media del 56%. Il monouso (spesso in plastica) è stato adottato anche per tutti i bar e ristoranti obbligati al take away. A favorire una maggiore produzione di plastica è entrato in gioco anche il drastico calo del prezzo del petrolio, vittima di una domanda globale in picchiata, che ha reso meno vantaggioso riciclare materiali plastici.

2 miliardi di tonnellate è la quantità di rifiuti che un mondo sempre più popolato produce ogni anno. Una quantità enorme che potrebbe crescere del 70% entro il 2050. E il fenomeno ha da qualche anno un simbolo: la plastica. Nel 2019, sono state 368 milioni le tonnellate di plastica prodotte globalmente. Una buona notizia è che la produzione in Ue è, anno dopo anno, in leggera ma costante diminuzione. La cattiva, però, è che la plastica è ancora troppa e facciamo fatica a smaltirla: nel 2019 ne abbiamo prodotte ben 57,9 milioni di tonnellate, di cui il 40% è costituito da imballaggi.

Questa evidenza ha portato l’Ue a varare la cosiddetta Plastic Tax, una tassa entrata in vigore da gennaio 2021 e da luglio in Italia. Sempre dal 1 gennaio 2021 per l’Ue diventa inoltre più difficile usare i Paesi in via di sviluppo come ‘discarica’ per la plastica in applicazione della Convenzione di Basilea. E ancora, nel 2021 banditi piatti, posate e cannucce di plastica grazie all’entrata in vigore della Direttiva 2019/904 il cui scopo è eliminare l’usa e getta e promuovere un approccio circolare ai consumi. Questa Direttiva, però, sta facendo i conti con l’attuale pandemia.

Secondo uno studio appena pubblicato sulla rivista Nature Sustainability, quattro categorie di prodotti rappresentano quasi la metà dei rifiuti presenti in mare: sacchetti di plastica monouso, bottiglie di plastica, contenitori e posate per l’asporto e involucri vari per alimenti. La lista dei rifiuti più comuni annovera anche corde e attrezzi da pesca in plastica, coperchi e tappi di bottiglie e contenitori alimentari. Lo studio conclude come la plastica rappresenti l’80% dei rifiuti in mare, dato già noto, quello che sorprende è l’elevata incidenza dei contenitori da asporto e degli oggetti monouso in generale.

Solo nell’ambiente marino, il numero di specie colpite da rifiuti plastici di varia natura e di varie dimensioni, è aumentato di oltre il 159% nel periodo 1995-2015 (passando da 267 a 693 specie) e nei due anni successivi, dal 2015 al 2018, è ulteriormente raddoppiato arrivando a circa 1.465 specie. Gli impatti sulla fauna possono essere suddivisi in quelli derivanti dall’intrappolamento, che può provocare lesioni, annegamento o strangolamento, all’ingestione.

Il 16 giugno è la giornata mondiale delle tartarughe marine, ed è proprio la tartaruga marina una delle specie maggiormente soggette a intrappolamento e ingestione di plastica. Considerando che ogni minuto l’equivalente di un camion pieno di rifiuti in plastica finisce nei mari del Pianeta, possiamo quindi dire con certezza che la trappola della plastica è molto insidiosa per le tartarughe. Solo negli ultimi sei mesi delle 230 tartarughe marine che sono state trovate in difficoltà e portate nei centri di recupero Wwf di Molfetta e Policoro, circa 30 hanno rilasciato plastica o avevano rifiuti di plastica nello stomaco o nell’intestino.

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