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C’è un problema, serio, che riguarda i salari e il potere d’acquisto, costantemente ridotto dall’aumento dell’inflazione. Servirebbero in Italia misure di politica economica capaci di garantire sostegno, senza fare danni. Non è facile farlo per definizione ed è ancora più difficile farlo in questa fase, con una maggioranza tanto larga quanto divisa: reddito di cittadinanza sì o no, salario minimo sì o no, taglio del cuneo fiscale sì, ma come? Le posizioni in campo sono distanti tra loro e sono sicuramente troppe. Il rischio, concreto, è quello di un cortocircuito che non consenta di muovere in una direzione piuttosto che in un’altra.

Sarebbe necessario mettere insieme il governo, la maggioranza e le parti sociali, trovando un compromesso che sia utile a un mercato del lavoro che, prima con la pandemia e poi con le conseguenze della guerra in Ucraina, continua a proporre salari troppo bassi per reggere l’aumento dei prezzi. Di fatto, però, una fitta rete di veti incrociati rende complicato anche solo immaginare una road map che possa portare a sbloccare la situazione.

Partendo dal salario minimo, c’è da registrare una sostanziale apertura dal premier Mario Draghi, più vicino in questa fase alla posizione del ministro del lavoro Andrea Orlando, convinto che possa essere valorizzata una proposta che prevede come “il trattamento economico complessivo contenuto nei contratti possa diventare il salario minimo di riferimento per tutti i lavoratori di quel comparto”. In linea anche le valutazioni espresse dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco: “Se ben studiato è una buona cosa”. Per arrivare a studiarlo serve però un via libera politico che non c’è, come dimostrano le parole del ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta, che ritiene il salario minimo “contro la nostra storia culturale di relazioni industriali”. E serve anche una coesione nelle parti sociali che sembra lontanissima. La Cisl è contro il salario minimo, la Cgil di Maurizio Landini minaccia la piazza, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi chiude la partita a modo suo: “Non è un nostro tema”.

Un primo contributo significativo potrebbe arrivare però dalla Commissione Ue. Se si arrivasse a un accordo politico sulla direttiva per il salario minimo, come sembra probabile, si metterebbe un punto fermo. Almeno per quanto riguarda un terreno di gioco condiviso. L’obiettivo è quello di istituire un quadro per fissare salari minimi adeguati ed equi rispettando le diverse impostazioni nazionali dei Ventisette, rafforzando il ruolo della contrattazione collettiva.

La strada, in Italia, resterebbe comunque stretta. Il salario minimo si lega al taglio del cuneo fiscale, misura indispensabile ma che ognuno vorrebbe portare dalla sua parte, e al reddito di cittadinanza, misura che in molti vorrebbero abolire ma che resta la misura di bandiera del Movimento Cinquestelle.

Tagliare le tasse sul lavoro è una questione di risorse, di proporzioni e di scelte. Confindustria vorrebbe un taglio da 16 miliardi, a beneficio delle imprese, che il governo non si può permettere, a meno che non voglia fare deficit in maniera consistente. La mediazione possibile, impiegare le risorse che arrivano dal recupero della lotta all’evasione, suona inevitabilmente come una promessa reiterata nel tempo e mai mantenuta. Giuseppe Conte sembra il più determinato di tutti. “Ci sono dei lavoratori poveri che hanno paghe da fame lo stiamo dicendo da parecchio e come M5S siamo più determinati che mai ad approvare il salario minimo”. Ma, sia chiaro, il reddito di cittadinanza non si tocca: “Dobbiamo mantenerla, dobbiamo presidiarla: io trovo indegno che una certa politica, per fortuna non tutta, concentri gli sforzi per rimuovere questa misura assolutamente necessaria”.

Al contrario Giorgia Meloni, dall’opposizione, dice chiaramente che il reddito di cittadinanza va eliminato per trovare le risorse necessarie a finanziare il taglio del cuneo fiscale. E definisce il salario minimo “la classica arma di distrazione di massa, rispetto al complesso dei problemi del mondo del lavoro”. Matteo Salvini, invece, insiste con la flat tax al 15% per le imprese, perché sono le imprese a dover pagare i salari.

Con la campagna elettorale sempre più accesa, sembra difficile si possa arrivare a una soluzione. A meno che Draghi non decida di arrivare a imporla ‘con la forza’, come ha fatto con il ddl Concorrenza e le concessioni balneari. Lo farà solo se la situazione dovesse imporlo o se trovasse una sponda solida all’interno della maggioranza e con le parti sociali.

(di Fabio Insenga – AdnKronos)

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