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Documenti non ancora declassificati rivelati alla stampa, indagini della magistratura finite nel nulla, personaggi che sembrano sfuggire a tutte le leggi come tanti flash nel buio. Ogni volta un lampo di luce, le polemiche e poi il silenzio: sono vent’anni che parliamo di nucleare iraniano e ancora non sappiamo quanto Teheran sia lontana dalla bomba atomica. Decine i paesi emersi di volta in volta in questo plurimiliardario affare con Teheran che va avanti almeno dalla metà degli anni 80. Collegando tutti i punti con pazienza su una cartina geografica ci si trova di fronte a una rete intercontinentale immane con sponde in Europa, Africa e America Latina. Società di stato russe e francesi, faccendieri e industriali italiani, alti militari venezuelani, banche tedesche, centrali nucleari congolesi: altro che spy story.

Usa annunciano sanzioni contro aziende statali russe e europee

L’ultimo atto risale a lunedì: gli Stati Uniti hanno annunciato che tra meno di un mese le sanzioni colpiranno le aziende statali russe ed europee ancora attive nell’impianto nucleare di Fordow. Il più controverso, quello nascosto all’interno di un bunker sotterraneo dove in passato, prima dell’accordo del 2015, Teheran ha sviluppato la parte più occulta del suo programma atomico. Il presidente Hassan Rouhani ha fatto sapere alla comunità internazionale che le attività di arricchimento dell’uranio a Fordow sono riprese: se Trump ha deciso di non rispettare l’accordo, non lo farà neanche Teheran.

Non che il dialogo tra Stati Uniti e Iran sia lettera morta: mentre nel sottosuolo di Fordow si arricchisce l’uranio, i contatti tra i due paesi proseguono attraverso terzi. Se ne intravedono timidamente le tappe nelle progressive liberazioni dei detenuti: a giugno il rilascio da parte di Teheran dell’americano libanese Nizar Zakka; quattro mesi dopo è tornato a casa un iraniano, Reza Dehbashi, detenuto in Australia per un traffico di equipaggiamenti radar verso Teheran.

Quei viaggi dell’ex deputato Cinquestelle Di Battista

Ed è questo il clima in cui Alessandro Di Battista, ex vicepresidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari, oggi lontano dalla vita politica attiva, ha candidamente annunciato in Italia la sua permanenza di un mese e mezzo in Iran per la stesura di un libro. Pochissimi i dettagli del lungo viaggio dell’ex deputato del Movimento 5 Stelle, un evento che in altri paesi avrebbe fatto scalpore. Non certo qui da noi, dove gli impeachment dei presidenti americani prendono forma in relativo silenzio. Al Fatto Quotidiano Di Battista ha spiegato rapidamente che sta facendo ricerche per un libro su tematiche internazionali. Solo una breve pausa nel viaggio per la morte della madre, poi è ripartito.

Quattro mesi fa, a giugno, Di Battista era in Congo, un altro paese chiave del nucleare tra occidente e Teheran. L’ex deputato era già stato a Kinshasa nel 2008 dove si era occupato di microcredito e alimentazione per conto dell’Unesco. Ma in quel 2008 la capitale congolese era da tempo sotto la lente d’ingrandimento internazionale per un presunto traffico di uranio all’Iran. Sì, perché il Congo a Kinshasa conserva la più antica centrale nucleare africana, attiva dagli anni 50 e chiusa solo nel 1998.

Una filo rosso unisce il Congo all’Iran

Tutto era cominciato nel 2006 sui quotidiani britannici. A luglio il Sunday Times aveva parlato dell’intercettazione di un carico di uranio 238 in viaggio dal Congo verso il porto di Bandar Abbas, in Iran. Per intenderci, l’uranio 238 è la componente da cui si ricava il plutonio, il materiale di cui sono fatte le bombe atomiche. Quel carico destinato a Teheran non era giunto a destinazione: nel corso di un controllo di “routine” a Dar Es Salaam era stato sequestrato dalle autorità della Tanzania. Il caso non era certo isolato: l’anno dopo era stato arrestato nientemeno che il commissario per l’Energia Atomica in Congo, Fortunat Lumu. Un giornale locale aveva parlato, peraltro senza fornire prove, della scomparsa di oltre 100 barre di uranio. Ma poco dopo era stato il ministro della Ricerca scientifica del paese, Sylvanus Mushi, a fare chiarezza sull’accaduto: Lumu, coinvolto in un colossale traffico di uranio, era in contatto con un gruppo di persone che venivano da Europa, Sud Africa, Seychelles.

Tra mancanza di controlli a Kinshasa e notizie di uranio trafugato, si arriva alla fine del 2010. The Guardian pubblica alcuni cablogrammi dell’ambasciata americana in Congo: nella centrale nucleare della capitale, tutt’altro che inattiva, gli scienziati starebbero conducendo ricerche. La sicurezza, come sempre… semplicemente inesistente.

1999: la mafia italiana e l’uranio arricchito

Nel 1999 una barra d’uranio arricchito, scomparsa da Kinshasa, fa capolino in Italia: le autorità giudiziarie la sequestrano a Roma nelle mani della mafia che la custodisce in un tubo di acciaio da 70 cm. L’acquirente: un misterioso paese del Medio Oriente. Ma in quei mesi un altro report emerge sulla stampa internazionale: l’Iran, proprio nell’ottobre del 1999, ha venduto alcuni missili Scud di fabbricazione sovietica alla Repubblica Democratica del Congo. L’affare è stato concluso a Kinshasa. È Teheran il misterioso destinatario delle barre d’uranio sequestrate alla mafia italiana?

Materiale nucleare all’Iran tramite Argentina e Venezuela… Intanto il procuratore che indaga muore d’infarto

Da noi in Italia le notizie faticano a uscire. Tocca ai quotidiani argentini parlare dell’industriale bresciano che dal 2010 è riparato in Cile. Lui è Fabio Mascialino, ex titolare della società Omb di Brescia: l’azienda produce macchine per il compostaggio dei rifiuti. Mascialino è già lontano quando nel maggio 2011 il procuratore aggiunto Alberto Caperna comincia a occuparsi della sua società per un caso di corruzione a Roma: si tratta di anomalie nelle gare di appalto per la fornitura all’Ama di spazzatrici, camion e cassonetti della Omb. La società nel 2009 è stata rilevata dal Comune di Brescia. Ma quello che si apre di fronte a Caperna è un abisso: gli imputati nel corso del processo cominciano a parlare di materiali nucleari diretti all’Iran tramite l’Argentina e il Venezuela. I materiali verrebbero trasferiti insieme alle macchine dell’Omb, nel traffico sarebbero coinvolti imprenditori, politici e militari italiani. Secondo il procedimento, Fabio Mascialino avrebbe usato società off shore uruguaiane, panamensi, cilene, olandesi e spagnole. Tutte utilizzate per supposti affari legati al trasferimento illegale di tecnologie nucleari. Mascialino viene indagato per frode, ma Caperna non riesce ad andare fino in fondo: il 14 ottobre 2012 muore d’infarto. La famiglia del magistrato chiede l’autopsia: la conferma del decesso per arresto cardiaco arriva subito. Da noi della vicenda nucleare non parla nessuno.

Nel maggio del 2018 l’Agenzia internazionale per l’atomica torna a parlare di mancanza di sicurezza nell’impianto di Kinshasa. Sì, ancora una volta. Pochi mesi dopo vengono sospese le esportazioni di cobalto dalla miniera del Katanga: il materiale contiene quantità di uranio superiori alle leggi internazionali. Ed è in questi ultimi mesi del 2019 che le esportazioni di cobalto hanno ripreso il loro corso di sempre.

Nel silenzio abissale confidiamo in Dibba

Il Congo è ancora al centro degli affari nucleari, almeno quanto l’Iran. Confidiamo in Di Battista, nei suoi viaggi e nel suo libro da Teheran: quando avremo il coraggio di fare luce su questi traffici che percorrono il nostro paese da decenni nel silenzio di tutti?

Monica Mistretta

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