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Foto: Moncef Kartas – Photo credit Huffington Post Maghreb

Due mesi di detenzione nelle carceri tunisine, con tanto di interrogatori e pressioni psicologiche. Poi, il 21 maggio, il rilascio e il rientro in Germania. La vicenda di Moncef Kartas, l’esperto dell’Onu che indagava sui traffici illegali di armi dirette alla Libia, poteva finire così, con il lieto fine e il rientro a Berlino… E invece il caso è ancora aperto: le autorità di Tunisi hanno fatto sapere che le indagini proseguono. Un portavoce del pubblico ministero, Sofiene Sliti, ha parlato di “raccolta non ufficiale di informazioni legate al terrorismo”.

Kartas, che risiede a Berlino e ha cittadinanza tunisina e tedesca, avrebbe dovuto essere protetto dall’immunità diplomatica garantita a tutti i rappresentanti dell’Onu, ma il 26 marzo era stato arrestato senza troppi complimenti all’aeroporto di Tunisi nel corso di un’operazione spettacolare condotta da agenti in borghese. Per la polizia, non era arrivato a Tunisi in missione diplomatica, ma per interessi personali. A nulla erano valse le proteste dell’Onu che ne avevano chiesto il rilascio immediato.

L’accusa che gli rivolgono le autorità locali ha dell’incredibile, soprattutto perché Kartas è uno dei sei incaricati dell’Onu per le indagini sui traffici illegali di armi alla Libia: divulgazione di informazioni sul terrorismo. Il 30 marzo l’imputazione si è ampliata allo spionaggio per conto di paesi esteri: l’anticamera della pena di morte. Il ministero dell’Interno di Tunisi all’epoca aveva rilasciato un breve comunicato nel quale citava il ritrovamento di documenti segreti contenenti dati sensibili per la sicurezza nazionale, oltre che di attrezzature tecnologiche usate per disturbare e intercettare le comunicazioni radio.

Con Kartas il 26 marzo era finito in prigione anche un tunisino, Ayssar Ben Aïssa, suo traduttore, autista e accompagnatore nel Paese. Nel suo profilo “Linkedin” Ayssa si definiva un rappresentante sviluppo della Clinton Foundation di New York. La stampa locale aveva cominciato a parlare di società di facciata e di un partner americano, che sarebbe fuggito da Tunisi subito dopo l’arresto dei due.

Anche la stampa internazionale si era buttata sul caso: quali scomodi traffici di armi aveva scoperto Kartas? Erano gli Emirati Arabi Uniti ad aver spinto le autorità tunisine a fermarlo perché aveva messo le mani sui flussi di armamenti diretti al generale Haftar, il quale, proprio pochi giorni dopo l’arresto del diplomatico, avrebbe dato il via all’offensiva contro le milizie di Tripoli? Oppure, secondo la versione cara ai quotidiani francesi, a darsi da fare erano state Turchia e Qatar, paesi fornitori delle milizie di Tripoli legate alla Fratellanza Musulmana? Tutti sapevano che il diplomatico pochi giorni dopo, il 30 marzo, avrebbe presentato l’esito delle sue indagini in occasione del vertice della Lega Araba a Tunisi.

Tunisia e Libia sono da decenni uno snodo del traffico internazionale di armi. Qatar ed Emirati, così come la Turchia, non sono produttori di tecnologie, ma a loro volta acquirenti. Le triangolazioni nelle vendite sono infinite: chi produce in Occidente e vuole trasferire le armi a Paesi sotto embargo, cerca in ogni modo di cancellare le tracce delle proprie transazioni. Una volta raggiunto il Nord Africa, le rotte degli armamenti occidentali seguono le strade nel deserto sahariano per arrivare ad altri due snodi centrali: la Mauritania, anticamera dell’America Latina sull’Oceano Atlantico, e la Somalia, porta per il Medio ed Estremo Oriente. Una volta raggiunte queste mete, risalire a chi ha prodotto le armi diventa complesso. Tunisia e Libia sono solo il primo di una lunga serie di passaggi che serve a mascherare il vero fornitore.

Kartas ha cittadinanza tedesca, oltre che tunisina: è in Germania che forse bisogna cercare la risposta, perché è sulla Germania che ha voluto fare pressione chi ha deciso di mettere in carcere il diplomatico. E Berlino, mentre Kartas era detenuto, era impegnata in un difficilissimo processo diplomatico: stemperare le tensioni tra Teheran, di cui è il primo partner commerciale, e Washington. Nei giorni in cui Kartas era in prigione, tra il governo iraniano e l’amministrazione americana di Trump la situazione sembrava essere sfuggita di mano: gli attentati alle navi nel Golfo Persico e all’oleodotto in Arabia Saudita stavano facendo precipitare gli eventi. Da una parte Teheran minaccia di uscire dall’accordo sul nucleare del 2015, dall’altra Washington chiede nuovi termini d’accordo che garantiscano un controllo più efficace del programma nucleare iraniano. Un programma che ha le sue radici anche in Germania: negli anni 90 Deutsche Bank e Siemens sono state a lungo sotto i riflettori delle indagini sui traffici di materiali nucleari diretti all’Iran. La vicenda, poco nota, della nave Coraline, partita dal porto di Amburgo con un carico nucleare di Torio e affondata a Ustica nel novembre del 1995, è solo uno dei tanti tasselli di questa storia che coinvolgeva navi a perdere, pescherecci e aerei: tutti, qualche volta, viaggiavano con i dispositivi di comunicazione spenti in direzione della Tunisia, della Libia e dell’Africa.

Su cosa aveva messo le mani Kartas a Tunisi? Sembra che il dispositivo in suo possesso, cui accenna il ministro dell’Interno tunisino nel suo comunicato ufficiale, servisse a rintracciare gli aerei che viaggiano con il Gps spento.

Un fatto dà subito all’occhio: esattamente una settimana dopo il rilascio di Kartas, il 28 maggio, l’americano “FoxNews.com” rendeva pubblico un rapporto dell’intelligence della Baviera, in Germania. Il rapporto, che risale al mese di maggio, dichiara apertamente che la Repubblica Islamica sta cercando di costruire armi di distruzione di massa: atomiche, biologiche, chimiche. Il report spiega che le autorità doganali tedesche nel 2018 hanno bloccato alla frontiera macchinari elettronici diretti all’Iran da utilizzare su veicoli per il lancio di missili. Il report precisa che l’Iran sta cercando di entrare in contatto con paesi ad elevata tecnologia, come la Germania.

Questo report costituisce una svolta per la Germania e l’Europa, che fino a oggi hanno difeso l’accordo sul nucleare firmato nel 2015 con l’Iran: solo qualche mese fa, a febbraio, il ministro degli Esteri tedesco aveva celebrato l’anniversario della Rivoluzione islamica all’ambasciata di Teheran a Berlino. Adesso qualcosa è cambiato. Nessuno ci verrà a raccontare se il caso Kartas ha contribuito a oliare gli ingranaggi: le guerre diplomatiche sono tra le più difficili da decifrare.

MONICA MISTRETTA

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