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È un silenzio surreale quello che in queste ore segue il sequestro da parte di Teheran di due petroliere britanniche. Un’operazione che pare si sia svolta in poco più di un’ora nella tarda serata di venerdì e nella quale sono andati in fumo milioni di dollari. Il tutto senza che la comunità internazionale abbia avuto, al momento, reazioni degne di nota.

Lo sguardo degli osservatori adesso è puntato lì, dove le petroliere britanniche hanno deviato la loro rotta per dirigersi forzatamente verso le coste dell’Iran: quelle poche miglia nautiche dello Stretto di Hormuz che separano il porto iraniano di Bandar Abbas dalle acque di Dubai, centrale finanziaria del Medio Oriente.

E così passano sotto traccia i bombardamenti e gli assassini che in queste ore stanno colpendo un’altra zona centrale per le risorse energetiche mondiali: la regione autonoma del Kurdistan iracheno, al confine con l’Iran. Da qui gas e petrolio raggiungono due capitali in guerra tra loro per il controllo della provincia siriana di Idlib: Ankara e Damasco.

Il picco delle tensioni nel Kurdistan iracheno arriva mercoledì scorso quando in pieno giorno, alle due del pomeriggio, mentre le telecamere riprendono tutto, un uomo armato irrompe in un ristorante di Erbil, capitale della regione del Kurdistan, e uccide a colpi di pistola un rappresentante diplomatico del consolato turco, Osman Kose.  Nessuno rivendica l’omicidio.

I leader del PKK, l’organizzazione curda con la quale la Turchia è in guerra fin dagli anni 80, dalle loro sedi a pochi chilometri da Erbil, negano ogni coinvolgimento. Ma la cosa sorprendente è che perfino il governo di Ankara, in genere durissimo nei confronti del PKK, non accusa apertamente l’organizzazione terroristica.

Passano le ore e sul sito statunitense “Al Monitor” emerge che, secondo le classiche fonti ben informate, Kose non sarebbe un diplomatico del consolato turco, bensì un uomo dei servizi di sicurezza di Ankara. E precisamente uno 007 esperto di rapporti sull’Iran.

Nel frattempo, emergono foto e nome dell’assassino, immortalato dalle telecamere del ristorante dove è avvenuto l’omicidio: è il turco Mazloum Dag, fratello di un noto ministro del principale partito curdo in Turchia, l’HDP. La dinamica dell’omicidio, con il fratello del ministro ripreso in pieno giorno mentre spara a Kose, prende una piega paradossale.

Ma il nome di Mazloum Dag non arriva in un momento qualsiasi: poche ore prima i jet turchi hanno bombardato la regione del Kurdistan a nord e a sud di Erbil facendo strage tra i curdi: sono morti civili e combattenti, un cittadino tedesco e un leader del PKK. I bombardamenti non si fermano dopo che contro Mazloum Dag viene scatenata la caccia all’uomo: proseguono fino venerdì sera.

Ed è venerdì mattina: manca qualche ora al sequestro delle due petroliere britanniche. Siamo ancora nel Kurdistan iracheno, a Salahuddin, a nord di Baghdad: un drone sgancia una granata su un campo di addestramento delle milizie sciite locali finanziate da Teheran. Un deposito di armi salta per aria: nessuno sa dire quanti siano i morti.

Nel pieno delle tensioni con l’Iran, il Pentagono prima e il Comando Centrale statunitense poi si affrettano a negare ogni coinvolgimento nell’attacco, che, anche in questo caso, resta senza rivendicazioni. Il tutto mentre infuriano i bombardamenti della Turchia in ritorsione dell’omicidio di Kose a Erbil.

È un esperto di questioni petrolifere, oltre che un consigliere del ministero del Petrolio iracheno, Hamza al Jawahiri, a fare chiarezza sulle pressioni in corso in Kurdistan: “Il sequestro da parte del Regno Unito della petroliera iraniana diretta in Siria nello Stretto di Gibilterra il 4 luglio, ha spinto l’Iran a intensificare le pressioni sull’Iraq affinché fornisca petrolio a Damasco”. Se il petrolio non passa da Suez e da Gibilterra, non resta che la via di terra attraverso Erbil.

Il Kurdistan iracheno, dopo Bassora, è la regione più ricca di gas e petrolio dell’Iraq: dagli impianti di Kirkuk il greggio raggiunge il porto di Ceyan in Turchia e di qui il Mediterraneo. Qualche volta, però, viaggia in direzione opposta: sottratto illegalmente di notte con tubi di plastica dagli impianti del governo di Erbil e caricato abusivamente su camion, raggiunge l’Iran.  Il Kurdistan è un polo energetico essenziale per la Turchia, priva di risorse, ma anche per l’Iran sotto sanzioni, che non vuole rimanere tagliato fuori dalle rotte di gas e petrolio e ha bisogno di rifornire il suo principale alleato, la Siria del presidente Bashar al Assad. Per questo Ankara e Teheran hanno costruito numerose basi militari attorno a Kirkuk e alla ricca Erbil: vogliono avere un piede ben saldo nella regione.

I bombardamenti di Ankara e Teheran nel Kurdistan iracheno sono così frequenti che ormai non fanno più notizia. Eppure, nell’ultimo mese anche i quotidiani internazionali gli hanno dato peso: l’ultimo dell’Iran risale al 12 luglio e ha colpito alcuni gruppi armati curdi. Alla fine di giugno i turchi avevano bombardato Sulaymaniyah, al confine con l’Iran. Ma gli attacchi di Ankara si erano moltiplicati esattamente in corrispondenza di quello iraniano: il 13 luglio i bombardamenti avevano cominciato a colpire basi e uomini del PKK, l’organizzazione curda nemica di Ankara, a cui Teheran ha sempre fornito soldi e sostegno.

In questo fuoco incrociato in Kurdistan c’è molto di più di quanto non ci raccontino. E il fatto che l’assassinio del “diplomatico” turco e l’attacco alla base delle milizie filoiraniane sono rimasti entrambi senza firma, dà da pensare. Tra Gibilterra ed Erbil la guerra energetica che ha il suo epicentro nello Stretto di Hormuz è molto più complessa di quanto non sembri a prima vista. Le tensioni tra Washington e Teheran hanno una natura tentacolare: difficile starne fuori.
MONICA MISTRETTA

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