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Richard Ratcliffe, marito di Nazanin Zaghari e padre di Gabriella, raffigurate nella foto che tiene tra le mani.

È una settimana che l’inglese Richard Ratcliffe digiuna accampato senza sosta davanti all’ambasciata iraniana a Londra: chiede che la moglie, Nazanin Zaghari, cittadinanza britannica e iraniana, venga rilasciata dalla prigione di Evin a Teheran, dove è detenuta dal 2016 con l’accusa di spionaggio. Anche sua figlia Gabriella è lontana: le autorità di Teheran, al momento dell’arresto della madre, hanno deciso di trattenerla nel paese affidandola alle cure della nonna.

La storia familiare di Richard è solo l’ultima piccola tessera di un puzzle che compone lo scontro asimmetrico tra Stati Uniti e Iran, una guerra non dichiarata nella quale, tra mine navali, droni, missili e minacce di guerra, a volte sembra che manchi qualche tassello. Come quando domenica gli Stati Uniti hanno annunciato di aver condotto un attacco informatico contro il sistema missilistico di Teheran in risposta all’abbattimento, avvenuto due giorni prima, di un drone americano da oltre 100 milioni di dollari.

E così lunedì, nel pieno delle tensioni, Seyed Abbas Musavi, portavoce del ministro degli Esteri iraniano, in una conferenza stampa a Teheran ha trovato il tempo per parlare anche di Nazanin, precisando che la legge del suo paese non prevede il riconoscimento della doppia cittadinanza. Nazanim è solo iraniana: la moglie di Richard è entrata nel pieno dello scontro.

La questione degli occidentali detenuti nelle carceri iraniane era finita sotto i riflettori alla fine di aprile quando il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif aveva proposto uno scambio di prigionieri: la liberazione di Nazanin in cambio del rilascio di una donna iraniana detenuta in Australia. Zarif aveva fatto sapere che una simile trattativa era in corso da sei mesi anche con gli Stati Uniti. Le prigioni iraniane ospitano diversi cittadini americani: l’ultimo, arrestato probabilmente nel luglio del 2018, è Michael White, veterano della marina statunitense.

La proposta di scambio di Zarif non era arrivata in un momento qualsiasi: a partire dal 1 maggio nessun paese avrebbe più potuto acquistare greggio da Teheran. Le sanzioni stavano per entrare in pieno rigore.

Il primo attacco nel Golfo avviene il 12 maggio: due petroliere saudite vengono sabotate al largo della costa degli Emirati Arabi Uniti. Il 17 maggio Londra invita tutti i cittadini con doppia nazionalità britannica e iraniana a non intraprendere viaggi a Teheran.  Il ministro degli Esteri, Jeremy Hunt, precisa che lì sono detenuti altri britannici con doppia nazionalità, proprio come Nazanim.

Le tensioni nel Golfo sembrano avere una battuta d’arresto dopo il 20 maggio quando l’Arabia Saudita intercetta due missili balistici diretti verso la Mecca lanciati dagli Houthi, i ribelli yemeniti sostenuti dall’Iran. Il 28 maggio i quotidiani britannici annunciano che il ministro della Difesa del paese ha rifiutato di trasferire oltre 400 mila sterline all’Iran. Si tratta dei soldi che Teheran aveva pagato negli anni 70 per l’acquisto di carri armati inglesi: con la rivoluzione islamica del 1979 il trasferimento dei mezzi militari era stato bloccato, ma i soldi non furono mai restituiti. L’Iran, strangolato dalle sanzioni, sta cercando di restare a galla.

L’11 giugno qualcosa sembra essersi sbloccato, questa volta sul fronte statunitense: Nizar Zakka, doppia cittadinanza americana e libanese, viene rilasciato dalla prigione di Evin a Teheran, la stessa dove è detenuta Nazanim. Nizar, che era accusato di spionaggio, vola prima a Beirut, poi il 12 giugno negli Stati Uniti. Fa appena in tempo perché le tensioni stanno per ricominciare.

Proprio il 12 giugno, nel giorno della visita a Teheran del ministro degli Esteri giapponese, Shinzo Abe, in qualità di mediatore tra Stati Uniti e Iran, l’aviazione israeliana attacca una base militare a Tel al-Hara nel sud della Siria. Non si tratta di un obiettivo qualunque: fin dagli anni 70 l’edificio ospitava una base di ascolto russa. Pochi giorni dopo, il 19 giugno, fonti dell’opposizione siriana rivelano che gli iraniani sotto la pressione di Mosca sono stati costretti ad evacuare centinaia di militanti dall’aeroporto di Aleppo: la Russia vuole salvare le sue infrastrutture da altri attacchi.

Ed è sempre il 12 giugno che la tensione torna a salire. Le milizie yemenite degli Houthi attaccano l’aeroporto saudita di Abha e lo fanno con una nuova arma di precisione: missili cruise teleguidati. Il 13 l’Iran punta le sue armi contro un drone americano nel Golfo Persico e lo manca. Due petroliere vengono colpite al largo dell’Oman. Il 14 giugno colpi di mortaio minacciano la base militare americana di Balad, in Iraq. Il 17 è la volta di Camp Taji, sempre in Iraq. Il 19 tocca agli uffici della compagnia petrolifera statunitense ExxonMobil vicino a Bassora, sempre in Iraq. Il 20 giugno gli iraniani abbattono un drone americano da 100 milioni di dollari. Bisogna aspettare il 23 giugno perché gli Stati Uniti annuncino di aver risposto con un attacco informatico alle strutture missilistiche iraniane. Ma intanto l’Iran ha già fatto un altro passo di guerra: le milizie Houthi hanno di nuovo colpito, e questa volta con i droni, l’aeroporto di Abha in Arabia Saudita.

Poche ore fa il presidente americano Donald Trump in un Tweet è stato, per una volta, chiarissimo: non tocca agli Stati Uniti proteggere le navi nel Golfo Persico. Di lì passa il petrolio destinato a Cina e Giappone: sono questi i paesi che dovrebbero occuparsene. E forse anche l’Europa. Gli Stati Uniti “non hanno bisogno di essere lì”. Trump se ne lava le mani. Ma i prigionieri americani e inglesi restano nelle mani di Teheran e torneranno a fare notizia, ci si può scommettere. Soprattutto perché a Londra e a Washington ci saranno a breve nuove elezioni e la campagna elettorale incalza.

 

Monica Mistretta

 

 

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