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Le vicende della Adrian Darya 1 e del suo carico da 130 milioni di dollari sono diventate una saga internazionale da seguire ormai in diretta. La petroliera iraniana, sequestrata a luglio dalle autorità britanniche nello stretto di Gibilterra (quando si chiamava ancora Grace 1) e rilasciata nottetempo il 18 agosto, poche ore fa aveva i dispositivi Gps in funzione e faceva bella mostra di sé sul sito di tracciatura marittima “MarineTraffic.com” in acque internazionali, esattamente al largo del confine tra Siria e Libano (ultima registrazione posizione 18 ore addietro, motore acceso velocità 1 nodo, ma mentre usciamo con questo nostro pezzo ha spento il Gps).


Solo due giorni fa, quando la Adrian Darya 1 navigava più a nord davanti al porto siriano di Tartus, il “Wall Street Journal” aveva rivelato che la nave si preparava a scaricare i suoi 2,1 milioni di barili di petrolio in Siria, il paese sotto sanzioni dove era diretta prima del sequestro. Le autorità di Teheran hanno promesso che non consegneranno il carico a Damasco e hanno dichiarato di averlo venduto a un acquirente. Ma a Washington stanno all’erta.

Da quando la Adrian Darya 1 ha lasciato lo Stretto di Gibilterra, il braccio di ferro in corso tra Stati Uniti e Teheran, iniziato più di un anno fa con l’uscita dell’amministrazione Trump dall’accordo sul nucleare, ha avuto una svolta: al G-7 di Biarritz, in Francia, il presidente americano ha dichiarato la propria disponibilità ad aprire un canale di dialogo con il governo di Teheran e a incontrare il presidente iraniano Hassan Rouhani per parlare di un nuovo accordo.

Ma le mosse a sorpresa di questa complicata partita a scacchi non sono finite. I Gps accesi della Adrian Darya 1 davanti alle coste tra Siria e Libano fanno sicuramente parte del gioco. Due giorni fa il segretario di Stato americano Mike Pompeo scriveva in un tweet: “abbiamo informazioni affidabili sul fatto che l’Adrian Darya 1 sia diretta al porto siriano di Tartus”. Nella notte la petroliera iraniana si è velocemente spostata più a sud al confine con il Libano.

E nelle ore in cui la nave cambiava posizione, il ministro degli Esteri iraniano Javal Zarif volava a Mosca per un incontro con la controparte russa, mentre il suo vice, in compagnia di un team di economisti, prendeva la volta di Parigi, dove Emanuel Macron sta mediando le trattative tra Washington e Teheran. Toccava ad Ali Rabiei, portavoce del governo iraniano, ricordare a tutti le scadenze più pressanti in questo turbinio di incontri e repentini cambi di rotta: venerdì scade il termine ultimo imposto dalle autorità di Teheran all’Europa perché si trovi un modo per vendere il petrolio iraniano sul mercato globale. Non è chiaro quale sia la contropartita nel caso in cui il termine non venga rispettato, ma l’Iran nei mesi scorsi ha già superato scorte e limiti di arricchimento dell’uranio fissati dall’accordo sul nucleare. Adesso potrebbe andare oltre.

Intanto qualcosa si muove anche altrove: in queste ore si parla di dialogo tra Stati Uniti e Houthi in Yemen. Un altro passo verso Teheran. Il quotidiano americano “The Wall Street Journal” ha fatto sapere che il segretario di Stato Mike Pompeo è pronto a dialogare direttamente con i ribelli yemeniti sostenuti dall’Iran e imporre un accordo di pace ai sauditi, in guerra in Yemen dal 2015. Gli Emirati Arabi Uniti, altro storico alleato degli americani nella regione, si sono portati avanti: dallo Yemen hanno già ritirato parte delle loro truppe e sono arrivati a un primo accordo di cooperazione con Teheran per la sicurezza nel Golfo Persico.

In questi giorni di mediazioni con il governo iraniano, si parla di trattative in tutto il Medio Oriente. Il Dipartimento di Stato americano ha annunciato di essere vicino a un accordo con i talebani: se dovesse andare in porto, 14.000 soldati statunitensi potrebbero lasciare il paese nel giro di poco più di un anno. Ma anche in questo caso, c’è chi tiene alta la posta in gioco per ottenere il più possibile dalle contrattazioni in corso: domenica, mentre l’inviato statunitense Zalmay Khalilzad atterrava nella capitale afghana, i talebani attaccavano le forze di sicurezza afghane nella provincia di Baghlan. Non era passato nemmeno un giorno da un precedente attacco nella città di Kunduz dove avevano perso la vita 20 soldati afghani e cinque civili.

Il presidente francese Macron sa che queste sono ore decisive su molti scenari. Non sono certo un mistero i rapporti tra Teheran e i Talebani. Alla fine del 2018 il ministro degli Esteri iraniano Zarif aveva riconosciuto ufficialmente un certo livello di cooperazione con l’organizzazione terroristica afghana. Ed era stato chiaro sulla posizione di Teheran in merito a un assetto politico nel paese confinante: “sarebbe impossibile avere un futuro Afghanistan senza un ruolo dei Talebani” aveva dichiarato all’epoca.

Macron e l’Europa sanno quanto il dialogo tra Stati Uniti e Teheran possa cambiare l’intero assetto del Medio Oriente.  Venerdì Macron ha avuto una lunga telefonata con il presidente israeliano Benjamin Netanyahu che lo ha invitato a non scendere a patti in questo difficile momento con l’Iran. Lunedì i giudici d’Appello della Corte Penale Internazionale dell’Aja, espressione europea, hanno chiesto di riaprire l’indagine sull’assalto dell’esercito israeliano alla Freedom Flottilla nel 2010. Il pubblico ministero, Fatou Bensouda, avrà tempo fino al 2 dicembre per prendere una decisione: se il caso dovesse essere riaperto, alcuni politici e militari israeliani rischierebbero di essere messi sotto processo. C’è da credere che di qui al 2 dicembre l’Europa avrà qualcosa in mano per cercare di tenere a bada il paese che più di tutti si oppone a un accordo con Teheran. Intanto, l’Adrian Darya 1 resta ancorata in acque internazionali: il braccio di ferro è in corso. Se il suo carico dovesse raggiungere la Siria, per l’amministrazione Trump e per l’Europa, sarebbe una disastrosa capitolazione.

Monica Mistretta

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