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Il 2020 sarà ricordato anche perché la crisi sanitaria del coronavirus ha picchiato duro sul fronte imprese. Gli ultimi dati Istat, relativi ad un’indagine campionaria molto ampia (riferita ad un universo di 1.019.786 imprese di 3 e più addetti che operano nel settore dell’industria e dei servizi) effettuata tra ottobre e novembre, parlano di 73.000 imprese chiuse, vale circa il 7,2% del totale. Ma le stime che arrivano dalle associazioni di imprenditori vedono nero, anche e soprattutto per i primi tre mesi del 2021: sono di oggi le cupe previsioni di Confcommercio che parlano di chiusura definitiva di oltre 390mila imprese del commercio non alimentare e dei servizi di mercato, fenomeno non compensato dalle 85mila nuove aperture, per cui la riduzione del tessuto produttivo nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305mila imprese (-11,3%). Di queste, 240mila, esclusivamente a causa della pandemia.

Anche per Confesercenti a causa del Covid, sono a rischio chiusura 150mila imprese del terziario (80mila nel commercio e 70mila nel turismo) e per Confartigianato un’impresa su 5 (il 21%) è soggetta a rischi operativi e avrà difficoltà nel proseguire l’attività nei prossimi mesi.

Occorre infatti tenere conto che la situazione negli ultimi mesi del 2020 si è come ‘cristallizzata’ per via degli aiuti e degli ammortizzatori sociali messi in campo dal governo. E molte imprese per ora ‘sopravvivono’, ma con l’inizio del nuovo anno si rischia invece un’impennata di chiusure e licenziamenti. Non ci sono, infatti, solo i numeri che indicano le chiusure ad allarmare, ma anche quelli relativi allo stato di difficoltà operativo delle aziende, come il calo del fatturato, la crisi di liquidità e l’aumento del ricorso al debito bancario.

Il rischio che l’escalation dei contagi da Covid-19, pur in assenza di un lockdown nazionale, possa essere devastante per imprese e lavoro viene sottolineato anche dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro nell’indagine ‘Crisi, emergenza sanitaria e lavoro nelle Pmi’: 2 imprese su 10 di quelle ad oggi aperte potrebbero chiudere. Sempre secondo l’analisi (svolta presso un campione di 5.000 consulenti del lavoro tra il 22 settembre e il 19 ottobre, in due diverse tranche), il 31,8% dei consulenti del lavoro individua tra il 10 e 20% la quota di imprese che potrebbero interrompere la propria attività a seguito di nuovo picco pandemico e inasprimento delle misure restrittive; il 48,4% formula previsioni ancora peggiori, individuando tra il 20 e 30% (il 26,9%) e superiore al 30% (21,5%).

La difficoltà ad andare avanti per le imprese italiane viene fotografata dall’Istat nell’ultimo report ‘Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19’ (dicembre 2020): a metà novembre, il 68,9% delle imprese italiane ha dichiarato di essere in piena attività, il 23,9% di essere parzialmente aperta e di svolgere la propria attività in condizioni limitate in termini di spazi, orari e accesso della clientela. Il 7,2% ha invece dichiarato di essere chiuso: si tratta di circa 73 mila imprese, che pesano per il 4,0% dell’occupazione. Di queste 55 mila prevedono di riaprire mentre 17 mila (pari all’1,7% delle imprese e allo 0,9% degli occupati) non prevedono una riapertura.

A cadere di più sotto i colpi della crisi da pandemia sono state le piccole e piccolissime imprese e quelle che operano al Sud: come dire che la crisi ha trovato terreno fertile su un tessuto già fragile. L’85% delle unità produttive “chiuse” sono infatti microimprese e si concentrano nel settore dei servizi non commerciali (58 mila unità, pari al 12,5% del totale), in cui è elevata anche la quota di aziende parzialmente aperte (35,2%).

Palestre, attività sportive, discoteche presentano la più alta incidenza di chiusura, seguite dai servizi alberghieri e ricettivi e dalle case da gioco. Una quota significativa di imprese attualmente non operative si riscontra anche nel settore della ristorazione (circa 30 mila imprese di cui 5 mila non prevedono di riprendere) e in quello del commercio al dettaglio (7 mila imprese). Il 28,3% degli esercizi al dettaglio chiusi non prevede di riaprire rispetto all’11,3% delle strutture ricettive, al 14,6% delle attività sportive e di intrattenimento e al 17,3% delle imprese di servizi di ristorazione non operative.

Tra le imprese attualmente non operative, quelle presenti nel Mezzogiorno sono a maggior rischio di chiusura definitiva: il 31,9% delle imprese chiuse (pari a 6 mila unità) prevede di non riaprire, rispetto al 27,6% del Centro, al 23% del Nord-Ovest e al 13,8% del Nord-Est (24% in Italia). Tra le imprese attualmente non operative, quelle presenti nel Mezzogiorno sono a maggior rischio di chiusura definitiva: il 31,9% delle imprese chiuse (pari a 6 mila unità) prevede di non riaprire, rispetto al 27,6% del Centro, al 23% del Nord-Ovest e al 13,8% del Nord-Est (24% in Italia).

Tra i fattori di difficoltà, sicuramente la riduzione di fatturato dichiarata dal 68,4% delle imprese (che rappresentano il 66,2% dell’occupazione) relativamente al periodo giugno-ottobre 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel 45,6% dei casi il fatturato si è ridotto tra il 10% e il 50%, nel 13,6% si è più che dimezzato e nel 9,2% è diminuito meno del 10%.

Anche le previsioni che esprimono le imprese non sono rosee. Per il periodo dicembre 2020 – febbraio 2021, dice ancora l’Istat il 61,5% delle imprese prevede una contrazione del fatturato rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente. Nel 40% dei casi il calo è previsto tra il 10 e il 50%, nel 15,1% di oltre il 50% e nel 6,4% di meno del 10%. Le valutazioni negative sono diffuse nei settori più colpiti dalla crisi, ossia servizi di alloggio (42,1%), ristorazione (31,9%), agenzie di viaggio e tour operator (35,8%), attività sportive, di intrattenimento e divertimento (32,2%) e attività creative e artistiche (31,6%).

C’è poi un altro importante osservatorio della vita delle imprese: ed è quello di Unioncamere, delle Camere di commercio. Sono loro a segnalare un altro fattore di grave difficoltà delle imprese, conseguenza dell’emergenza sanitaria: la scarsità della liquidità che tocca due imprese su cinque del commercio. Fattore che ha indotto molte imprese a richiedere nuove linee di credito pur senza requisiti di affidabilità.

I primi mesi del 2021 restituiranno, dunque, osserva Unioncamere “dati di peggioramento delle cessazioni che probabilmente si sommeranno al picco stagionale del fenomeno (le imprese tendono a concentrare le cancellazioni nei primi mesi dell’anno, e in particolare a gennaio e febbraio, come illustrato nel grafico presente nel comunicato stampa), con un ulteriore incremento di chiusure legato alla valutazione degli imprenditori di interrompere l’attività (che si intravede nei dati già nel mese di ottobre) a conclusione del bilancio dell’annus horribilis 2020”.

 

(AdnKronos – di Mariangela Pani)

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