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Il leader di Fatah resta escluso dallo scambio di prigionieri previsto dall’intesa mediata in Egitto

Nel giorno in cui Hamas e Israele firmano al Cairo un accordo che dovrebbe aprire uno spiraglio dopo mesi di tensione, un’assenza pesa più di molte presenze. È quella di Marwan Barghouti, il leader di Fatah da oltre vent’anni detenuto nelle carceri israeliane, da tempo indicato come il potenziale successore di Mahmoud Abbas.

Per i palestinesi, Marwan Barghouti è un simbolo di resistenza e unità, spesso definito il Mandela palestinese; per Israele resta invece un terrorista, ritenuto responsabile di diversi attentati durante la Seconda Intifada. Due visioni inconciliabili che si riflettono anche nel nuovo accordo, dal quale il suo nome è stato escluso.

Secondo la portavoce dell’ufficio del premier israeliano Benjamin Netanyahu, Tal Heinrich, citata da Haaretz, la liberazione di Marwan Barghouti “non è mai stata oggetto di discussione”. Una posizione ferma che rivela la volontà israeliana di non concedere alcun vantaggio politico a Fatah, mentre l’accordo con Hamas si muove su un terreno fragile e temporaneo.

La scelta arriva in un momento di massima fluidità politica per i palestinesi. Con la popolarità di Abbas in calo e Hamas in cerca di legittimazione dopo mesi di isolamento internazionale, Barghouti rappresenta l’unica figura in grado di catalizzare consenso in entrambe le fazioni. I sondaggi del Palestinian Center for Policy and Survey Research lo confermano da settembre 2023 come il politico più popolare sia in Cisgiordania sia nella Striscia di Gaza.

Proprio per questo, la sua esclusione dall’intesa potrebbe non essere solo una questione giudiziaria ma anche una mossa politica calcolata. La sua eventuale liberazione, infatti, avrebbe potuto ridisegnare la leadership palestinese, aprendo a scenari di ricomposizione tra Fatah e Hamas che né Israele né parte della comunità internazionale sembrano oggi disposte a favorire.

Barghouti, oggi sessantatreenne, nacque nel villaggio di Kobar, vicino Ramallah. Da giovane leader studentesco dell’università di Bir Zeit, venne arrestato a 18 anni per la sua militanza in Fatah e trascorse sei anni nelle carceri israeliane, dove imparò l’ebraico e approfondì la conoscenza della politica israeliana. Dopo gli Accordi di Oslo del 1993 gli fu permesso di rientrare in Cisgiordania e, nel giro di pochi anni, divenne il segretario generale di Fatah nella regione.

Durante la Seconda Intifada, Marwan Barghouti fu accusato di aver diretto gli attacchi delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa e nel 2002 venne catturato a Ramallah durante l’operazione “Scudo difensivo”. Da allora è detenuto nel carcere di Hedarim, dove sta scontando cinque ergastoli per omicidio e terrorismo. Anche dietro le sbarre, tuttavia, non ha mai smesso di esercitare un’influenza politica: nel 2006 fu tra i promotori del Documento dei prigionieri per la riconciliazione nazionale, sottoscritto anche da Hamas, e nel 2017 guidò un sciopero della fame di massa per i diritti dei detenuti palestinesi.

La sua figura resta oggi una delle poche capaci di unire idealmente le anime divise del movimento palestinese. Ma proprio per questo, il tempismo dell’accordo tra Hamas e Israele — che arriva in una fase in cui la leadership palestinese appare debole e frammentata — suggerisce che la sua esclusione non sia casuale.

Nel breve termine, la decisione evita a Israele di consegnare ai palestinesi un eroe politico. Nel lungo periodo, però, potrebbe alimentare ulteriormente il mito di Marwan Barghouti, il detenuto che molti considerano l’unico in grado di dare una nuova direzione alla causa palestinese.

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(con fonte AdnKronos)

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