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Il conflitto transizione energetica-guadagno non esiste, anzi. Per il 71% degli italiani le azioni che renderebbero le aziende davvero sostenibili porterebbero alle imprese un vantaggio non solo di immagine ma anche un tangibile ritorno economico.

Questo emerge dall’indagine “Gli Italiani, la sostenibilità e le imprese” (effettuata su un campione di 1.000 italiani maggiori di 18 anni), commissionata da FpS e presentata in occasione del lancio del progetto Sustrain, agenzia specializzata nell’accompagnare le imprese lungo il loro percorso di transizione sostenibile.

L’opinione degli italiani sulla transizione

Tra i tre aspetti dell’ambito Esg (ambientale, sociale e di governance) gli italiani sentono più vicino quello ambientale. La ricerca Sustrain offre diversi spunti di interesse, tra cui:

– La riduzione della CO2 è l’impegno più importante che le aziende possano assumere nell’ottica di una trasformazione green per il 71% degli intervistati;

– l’impegno sociale dell’azienda, ovvero l’introduzione di piani di welfare per lavoratori e famigliari e progetti che abbiano un impatto positivo sulla comunità e il territorio in cui l’azienda opera è rilevante per il 51% degli intervistati;

– stando a quanto dicono gli intervistati, lo sforzo di transizione sarà premiato: l’84% degli intervistati dichiara che sarebbe disposto a pagare di più rispetto per un prodotto che sia davvero più sostenibile rispetto ai concorrenti.

L’89% degli intervistati ha dichiarato di preferire le marche considerate sostenibili.

I settori dove la sostenibilità è più percepita

L’indagine Sustrain evidenzia che gli italiani sono disposti a spendere di più in cambio di maggiore sostenibilità soprattutto per gli alimentari freschi (62%), seguiti da infrastrutture domestiche, come riscaldamento, condizionamento, infissi (36%), prodotti per la salute (35%) e prodotti per la casa (35%). Seguono più distanti: abbigliamento (29%) e mezzi di trasporto (auto, moto, bici, 25%) mentre solo il 18% degli intervistati accetta di spendere cifre maggiori per effettuare viaggi sostenibili.

Questi dati indicano che non è ancora chiaro l’impatto devastante che il fast fashion ha sull’ambiente e che si è ancora poco disposti a fare sacrifici sulla mobilità.

In realtà, scegliere la sostenibilità non significa solo scegliere un determinato prodotto, ma anche chiedersi se quello sia davvero un acquisto utile o solo un modo per fare felice il proprio cervello in quel momento, salvo poi accantonare il neoacquisto nel ripostiglio.

O, peggio, buttarlo come succede con quasi mille tonnellate di cibo all’anno. Secondo quanto riporta Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, infatti, nel 2019 sono stati prodotti 931 milioni di tonnellate di scarti alimentari, dei quali la grande maggioranza (61%) domestici.

Il 26% proviene dal mondo della ristorazione e il restante 13% dalla vendita al dettaglio. Numeri impressionanti, nonostante il miglioramento registrato dall’ultimo rapporto Waste Watcher International che nel 2023 evidenzia una decisa riduzione di rifiuti alimentari in diversi dei Paesi, tra cui Germania -43%, Spagna -40%, USA -35%. La riduzione c’è, anche se è meno evidente, c’è stata anche in Italia con il -12%.

L’impatto del Covid

Spesso si dice che la pandemia, che è e resta uno dei momenti più bui degli ultimi decenni, sia stato un acceleratore di processi. Lo sostiene anche Gianluca Schinaia, Head of Sustainability di Sustrain, secondo cui i dati dell’indagine “confermano un trend nato negli anni post Covid, ovvero la crescita dell’attenzione dei consumatori italiani alla qualità e al valore sociale di un servizio o un prodotto.

La sostenibilità non è più, infatti, un ‘nice to have’, ma una caratteristica intrinseca di un prodotto. Oggi sostenibilità significa qualità sul mercato: sia del prodotto che dell’azienda che lo propone. E questo processo culturale si accompagna all’obbligo normativo sempre più stringente innescato dalle ultime direttive europee. Per rimanere competitivi, insomma, è tempo di diventare sostenibili”, chiosa Schinaia facendo eco agli studi che dimostrano che la decarbonizzazione costa, ma non farla costa di più.

Anche secondo il “Rapporto sulle imprese 2021” dell’Istat, la transizione ecologica piace agli italiani, che la ritengono non solo necessaria e urgente, ma anche conveniente dal punto di vista economico. Infatti, l’86% degli intervistati ritiene che la transizione ecologica riduca i rischi ambientali e climatici e favorisca gli investimenti, l’innovazione e l’occupazione. Inoltre, l’85% degli italiani pensa che non attuare la transizione ecologica significherebbe pagare costi elevati per i danni causati dall’inquinamento e dal riscaldamento globale.

Sul punto va segnalato che entro la fine di quest’anno scatta l’obbligo di assicurazione contro le calamità naturali per le imprese, misura che dimostra una volta di più quanto la sostenibilità ambientale e gli aspetti economici delle aziende siano connessi.

Una relazione non sconosciuta agli italiani che, sottolinea Lorenzo Bordoni, Business Developer di Sustrain, “sembrano essere consapevoli che per le imprese investire per essere sostenibili abbia un impatto positivo sui bilanci e sulla reputazione aziendale. Il 96% – continua Bordoni – ritiene che la sostenibilità abbia un ritorno d’immagine per l’impresa e per l’81% persino un guadagno a livello economico. Questi dati sembrano essere un segnale incoraggiante per le imprese decise a perseguire un percorso di innovazione economica, sociale e ambientale”.

Come attuare il cambiamento

Infine, la ricerca indaga come bisogna attuare la transizione secondo gli italiani. E anche qui la risposta è netta: il cambiamento deve partire dall’alto, dalle figure di vertice dell’azienda.

Infatti, l’85% degli intervistati ritiene molto o abbastanza necessario creare piani formativi per manager e dirigenti, mentre la formazione per i dipendenti raccoglie solo il 15% delle preferenze

Maggiore discrepanza, invece, sul ruolo degli incentivi fiscali: il 41% degli intervistati è d’accordo sul fatto che sia necessario prevedere degli incentivi fiscali per supportare le aziende nel loro cambiamento, mentre il 39% considera l’incentivazione fiscale un fattore da considerare solo a patto che questa porti risultati rilevanti e misurabili.

Quest’ultimo aspetto rappresenta un punto cruciale del Pnrr e può essere a chiave di volta per portare tutti gli stakeholder dalla parte della transizione che dovrà passare prima di tutto dalle aziende. Un risultato necessario, anche se non semplice da raggiungere come dimostra il rinvio del voto sul Supply chain act.

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