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Testimone oculare, prova scientifica e confessioni, in questo ordine cronologico esatto. Contro Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati in via definitiva all’ergastolo per la strage di Erba, c’è tutto quello che la pubblica accusa vorrebbe avere tra le mani per vincere un processo. Eppure, a sorpresa, il sostituto procuratore della corte d’appello di Milano, a quasi 17 anni di distanza dai fatti accetta la ‘sfida’ dei difensori e prova a ‘sgretolare’ quanto tutti i giudici – in ciascuno dei tre gradi di giudizio – non hanno mai messo in dubbio. Lo fa attraverso nuove prove, affidandosi ai progressi scientifici e tecnologici che racchiusi in tre grandi perizie, provano a restituire un’altra verità e a trasformare i colpevoli in possibili vittime di un errore giudiziario. Innocenti la cui condanna è frutto di “falsità”.

Il pg di Milano Cuno Trasfusser firma il primo, difficile, tentativo di richiesta di revisione su quanto accaduto la sera dell’11 dicembre 2006 quando in soli 22 minuti, a partire dalle 20, con armi mai trovate – si scriverà di spranga e coltello poi gettati in un cassonetto – vengono uccisi con ferocia Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk di soli 2 anni, la nonna del piccolo Paola Galli e una vicina di casa Valeria Cherubini, accorsa dopo le fiamme divampate in via Diaz. Si salverà, solo per caso il marito Mario Frigerio, gravemente ferito alla carotide e unico testimone oculare della strage legata a dissidi di vicinato.

Da subito l’attenzione degli investigatori si focalizza sui coniugi, sentiti come testimoni il 12 e il 20 dicembre, quindi fermati l’8 gennaio 2007. Contro di loro – subito intercettati – c’è la macchia di sangue trovata il 26 dicembre sull’auto di Olindo, quindi il riconoscimento (2 gennaio) da parte di Frigerio – ricoverato all’ospedale Sant’Anna di Como – di Olindo come del suo aggressore. Non convince l’alibi della coppia: lo scontrino di un McDonald’s del centro. “Siamo stati noi”, diranno il 10 gennaio 2007, assumendosi la responsabilità della mattanza. Caso chiuso a leggere le sentenze che a quelle tre prove dedicano decine di pagine – ben 70 per le confessioni, 23 per il riconoscimento e 21 per la macchia di sangue – e che il sostituto procuratore prova a smontare – bisognerà passare il vaglio di Brescia – nella richiesta di revisione lunga 58 pagine.

Il riconoscimento – Mario Frigerio è l’unico sopravvissuto, ma anche l’unico testimone della strage di Erba. Ricoverato in rianimazione, solo a circa 86 ore dai fatti – ovvero alle 10.30 del 15 dicembre 2006 – può essere ascoltato. Dal 15 al 26 dicembre viene sentito otto volte: prima il killer sconosciuto, poi “dal 2 gennaio 2007” parla di Olindo come del suo aggressore. Ricostruisce quanto accaduto la sera della strage, quando la moglie risale dalla passeggiata serale con il cane e lo avverte che dall’abitazione di sotto – “frequentata da extracomunitari di cultura araba” – esce del fumo e va a controllare. “Ho visto la porta socchiusa dell’appartamento di Castagna. Quell’uomo ha estratto un coltello e mi la tagliato la gola, poi ho perso conoscenza”.

La descrizione dell’uomo è “corporatura robusta, conti capelli corti neri, carnagione olivastra, occhi scuri, senza baffi, era vestito di scuro, ma non so precisare il colore. La luce delle scale, che e a tempo, si è spenta e ciò non mi ha consentito il reagire prontamente all’aggressore il quale aveva una forza bruta. Mentre venivo aggredito sentivo le urla di mia moglie, pertanto penso che vi fosse almeno un altro aggressore. Non so che lingua parlassero, perché non li ho sentili parlare”, le sue parole a verbale. Cinque giorni dopo Frigerio incontra il luogotenente Luciano Gallorini e per la prima volta, secondo un’annotazione “costellata di varie stranezze”, gli chiede se conosce Olindo Romano e a un certo punto, Frigerio, piangendo, avrebbe detto che “‘il suo assassino poteva essere l’Olindo'”. Una rivelazione che non porta a un’accelerazione: viene risentito il 26 dicembre, ma ci sarebbe una “insanabile discrasia tra i verbali riassuntivi di servizio e le trascrizione delle registrazioni”.

Nelle annotazioni il testo è chiaro: “La persona che ho visto in faccia era una persona a me nota. Si tratto del mio vicino di casa di nome Olindo, lo l’ho riconosciuto subito ma poi ho rimosso la cosa perché non ci volevo crederci e volevo cancellare tutto”; poi aggiunge: “Ricordo di essermi chiesto cosa ci faceva l’Olindo lì in quel casino”. E ancora: “Non ho detto subito di avere riconosciuto l’Olindo non perché volessi coprirlo”, ma perché stentava a credere che potesse avere fatto una cosa del genere. Quell’aggressore lo riconoscerà in aula a Como – nell’udienza del 26 febbraio 2008 – con un filo di voce, ma senza tentennamenti, puntando il dito verso Olindo: “E’ inutile che mi guardi così, disgraziato, eri tu”.

Eppure nella richiesta di revisione si rileva come il riconoscimento ha avuto “una genesi tortuosa, sia inficiato da evidenti e gravi elementi di criticità che lo rendono estremamente dubbio ma soprattutto, che si fonda su elementi che pur essendo in atti, mai sono stati valutati” dai giudici. E si aggiungono elementi nuovi: “Dai dati clinici acquisiti dopo il 2010”, dalle “trascrizioni delle intercettazioni ambientali mai effettuate prima” che vanno dal 20 dicembre 2006 a 3 gennaio 2007, fino a “dati scientifici nuovi sulle distorsioni del ricordo a seguito di suggestioni” effettuate su un testimone nelle stesse condizioni portano a ritenere che Frigerio, intossicato dal monossido sprigionato dall’incendio, sia stato vittima di una “falsa memoria” su quanto accaduto la sera dell’11 dicembre 2006.

La macchia di sangue – La traccia della vittima Valeria Cherubini trovata sul battitacco dell’auto di Olindo avrebbe una genesi “strana”. L’auto viene visionata due volte. La prima volta il 12 dicembre alle 14.21 dai carabinieri della stazione di Erba, quando nessuna traccia ematica spunta dal lato guidatore, poi il 26 dicembre alle 23 da un militare del Nucleo operativo di Como. Quale può essere l’urgenza di svolgere un accertamento tecnico “a distanza di 15 giorni dai fatti” e redigere il relativo verbale “solamente alle ore 11 del 28 dicembre, ovvero 36 ore dopo?” è la domanda riguardo a un atto apparentemente redatto da un brigadiere, ma da lui non sottoscritto. Ancora: “Dove sono le foto delle tracce, dei reperti”?. Le operazioni “di ispezione, di repertazione, di verbalizzazione e di trasmissione avvengono, non solo in tempi e con modalità, a dir poco, non trasparenti e non tracciabili, ma anche con stupefacente superficialità, malgrado si trattasse di un incombente potenzialmente di grande importanza in un’indagine di eccezionale rilevanza”.

Una ‘stranezza’ che trasforma l’elemento scientifico in una prova che “trasuda criticità” fin dall’origine. Gli interrogativi del pg sulla “genuinità” riguardano il perché l’accertamento, “delicatissimo e potenzialmente decisivo”, viene svolto da un solo brigadiere “e non, con tutti i crismi in termini di professionalità, competenza e con la strumentazione tecnica adeguata, dagli specialisti del Ris” già sul posto. Sorprendente, per il sostituto procuratore, l’abilità dei Romano “di essere riusciti a non lasciare alcuna loro traccia sul luogo dove hanno scatenato una sfrenata rabbia lasciando un bagno di sangue e di essere riusciti non ‘portare’ alcuna traccia del crimine appena commesso” nella loro casa.

Le confessioni – Il primo interrogatorio di Olindo Romano e Rosa Bazzi risale all’8 gennaio 2007. “Il semplice ascolto delle registrazioni (non la lettura delle trascrizioni) degli interrogatori resi nell’immediatezza del fermo dagli allora indagati lascia esterrefatti. Innanzitutto il contesto ambientale. Questo è caratterizzato da un enorme squilibrio numerico, culturale, emozionale, giuridico. All’interrogatorio dei due fermati, una semianalfabeta e un netturbino, procedono addirittura quattro pubblici ministeri” e “l’onnipresente Gallorini” scrive il pg Tarfusser. La pressione, soprattutto psicologico-emotiva, cui i due fermati sono soggetti “è enorme”, ma nonostante “domande spesso suggestive, altre volte fondate su presupposti del tutto infondati, scorretti, certamente incompleti” non confessano. Olindo per un’ora e quaranta minuti ripete la sua innocenza.

Poi il crollo. “Resta anche da capire cosa accadde nelle circa 48 ore tra gli interrogatori dell’8 gennaio e quelli del 10 gennaio 2007. Certo è che i due sono soggetti a qualche ‘manipolazione’ da parte dei carabinieri che la mattina del 10 gennaio sono entrati in carcere, apparentemente per prendere le impronte (…), attività che comunque non necessita di tre ore”, si legge nella richiesta di revisione. “In quelle 48 ore viene dato modo alla Bazzi e al Romano di incontrarsi e di parlarsi. Inconsueto è il minimo che si possa dire anche se l’avere dato questa possibilità di incontrarsi aveva una finalità investigativa posto che il luogo dell’incontro è intercettato che però non ha dato il risultato auspicato”.

Nella richiesta si citano valutazioni neurologiche che sostengono si tratti di “false confessioni”, anche i video degli esperti in carcere per il pg dimostrano la presunta recita della coppia. Eppure quelle confessioni, poi scritte sulla Bibbia da Olindo, la Cassazione le reputa granitiche, sottolineando dettagli – la posizione dei cadaveri, il fuoco alimentato dai libri, la morte di Youssef sgozzato da una mano mancina – che soltanto chi era stato quella sera nella corte di via Diaz a Erba poteva conoscere.

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(con fonte AdnKronos)

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