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Quante persone conoscete che rendono spesso i prodotti acquistati online? Se la risposta è “tante”, siete in linea con quanto avviene nel resto dell’Occidente. O meglio, con quanto è avvenuto finora, dato che il 2024 potrebbe essere l’anno che dà l’addio ai resi gratuiti.

La rivoluzione parte dall’Oltremanica: nel Regno Unito, secondo il New York Post, 8 rivenditori online su 10 hanno deciso di addebitare una commissione per la restituzione degli articoli. A fare da apripista Zara, che già da (circa) un anno addebita 1,95 sterline sul valore del rimborso ma solo per i clienti che vogliono restituire un capo acquistato online attraverso punti di consegna gestiti da terze parti (come gli uffici postali). Per ora Zara non applica alcuna commissione se il reso viene fatto nei negozi fisici della catena spagnola.

Restituzioni a pagamento sono previste anche dalla giapponese Uniqlo (nel territorio nipponico) e la britannica Asos, anch’esse catene che vendono indumenti.

L’era del reso a pagamento è iniziata anche negli Usa. Secondo il New York Post, Zara, Macy’s, Abercrombie & Fitch, J. Crew ed H&M hanno imposto commissioni sino a 7 dollari per la restituzione degli articoli tramite resi postali. Yoox prevede che reso sia a carico del cliente.

Assume particolare rilevanza il fatto che persino Amazon, regina indiscussa delle vendite online, abbia deciso di inserire il costo di 1 dollaro per chi sceglie di rimandare indietro un prodotto. Per ora il costo si applica solo sui resi in territorio statunitense, ma è altamente probabile che questo costo venga applicato ovunque nel mondo.

Va specificato che la restituzione rimane gratuita nei negozi di alimentari Whole Foods, Amazon Fresh o Kohl’s, dove Amazon ha stabilito accordi di partnership che consentono la procedura di reso senza costi aggiuntivi per i clienti.

La situazione in Italia

Per ora l’Italia, così come gli altri Stati europei, non sono toccati dalla politica del reso a pagamento, ma mai come in questo caso il “per ora” ha un peso specifico molto importante. Già adesso, Zara prevede che il reso sia gratuito esclusivamente se si porta il capo in negozio, mentre il ritiro a domicilio costa 4,95 euro che vengono addebitati sul valore del rimborso. Restando in Italia, H&M offre il reso gratis solo per i membri, mentre addebita un importo di 2,99 euro a tutti gli altri acquirenti che decidono di rendere la merce acquistata.

Perché il reso diventa a pagamento

Il reso compulsivo ha creato una situazione insostenibile, sia dal punto di vista economico che ambientale.

Alla base di questa situazione ci sono i comportamenti sbagliati dei consumatori. Sempre più persone, infatti, hanno acquisito l’abitudine di acquistare lo stesso capo in diverse taglie e/o colori sapendo di poter tenere il preferito e rendere l’altro (o gli altri) a costo zero. Questo fenomeno ha assunto dimensioni tanto grandi da meritarsi un nome tutto per sé: il bracketing.

Non solo. Nelle ipotesi peggiori (ma non rare), i consumatori acquistano un prodotto, lo utilizzano quando torna più utile per poi restituirlo gratuitamente. In questo caso, il prodotto non è più rivendibile dall’azienda come nuovo, senza contare le volte in cui il prodotto viene reso danneggiato, a causa dell’utilizzo del consumatore.

Secondo i dati della National Retail Federation, la più grande associazione di commercio al dettaglio del mondo, in America i clienti hanno rispedito circa il 17% della merce totale acquistata nel 2022, per un totale di 816 miliardi di dollari. In pratica, dei prodotti acquistati online, quasi 1 su 5 diventa oggetto di reso.

Il reso gratuito è doppiamente insostenibile

Ogni volta che un consumatore restituisce un capo o un oggetto acquistato online, questo va nuovamente trasportato, controllato, riparato e riconfezionato prima di poter essere effettivamente rimesso in vendita. Un processo costoso per le aziende, tanto che per oggetti di scarso valore economico o troppo danneggiati, il destino in caso di reso è solo uno: diventare un nuovo rifiuto.

Quando questo non avviene, si innesca un processo che comunque inquina perché richiede l’uso di risorse energetiche, materiali e umane, che contribuiscono all’emissione dei gas serra, all’inquinamento dell’aria e dell’acqua e alla deforestazione.

Evidentemente la politica del reso gratuito è insostenibile non solo da un punto di vista ambientale, ma anche da un punto di vista economico, per le aziende.

Secondo le stime della società di servizi di vendita Inmar Intelligence, i rivenditori spendono 27 dollari per gestire il reso di un articolo da 100 dollari acquistato online, mentre il Wall Street Journal spiega che le aziende perdono circa il 50% del loro margine sui resi.

Conclusioni

Negli ultimi anni le istituzioni, soprattutto quelle Ue, stanno prevedendo normative specifiche che obbligano le aziende ad aumentare il proprio impegno e la propria trasparenza in materia di sostenibilità. I miglioramenti ci sono ma risultano ancora insufficienti per 41 indicatori su 42.

Questo significa essenzialmente due cose:

– occorre insistere in questa direzione con più decisione;

– non basta coinvolgere le aziende nella lotta al cambiamento climatico

La fine del reso gratuito va accolta quindi come una misura opportuna e anche come un invito ad una maggiore responsabilità da parte della società. D’altronde la sfida ambientale può essere vinta solo se combattuta sinergicamente da tutte le parti sociali, consumatori inclusi.

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(AdnKronos)

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