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“Vanno combattuti senza tentennamenti i casi, non rari, di emarginazione totale della lingua italiana, specialmente quando essa viene rimossa dall’alto, ad opera di italiani, e in Italia, non all’estero o ad opera di stranieri (gli italiani sono molto bravi nel farsi male da soli). Purtroppo gli esempi più evidenti di emarginazione totale e autoritaria dell’italiano si sono verificati e si verificano in un settore di primaria importanza e di grande peso qual è l’ambito universitario”. E’ il monito che arriva dal linguista Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, con un intervento dal titolo ‘Nuove leggi sull’italiano. Ma sono davvero ‘politica linguistica’?’, pubblicato sul sito internet della secolare istituzione fiorentina, intervenendo sulla proposta di legge depositata alla Camera che ha suscitato polemiche per l’ipotesi di introdurre multe per chi usa parole inglesi.

Secondo il professore Marazzini, le polemiche hanno fatto trascurare “elementi interessanti e piuttosto nuovi, pur presenti nella legge”, come la questione dei contratti di lavoro in lingua italiana, “che meriterebbe di essere esaminata da esperti di diritto del lavoro, ma che a prima vista a me pare legittima e auspicabile”. “In un clima di globalizzazione e di forte presenza di multinazionali operanti in Italia, infatti, il vincolo del contratto di lavoro comunque redatto anche in italiano potrebbe essere una garanzia da non trascurare – sostiene l’illustre storico della lingua italiana – Prima ancora di una sanzione economica, nei casi di violazione si potrebbe pensare alla semplice nullità dell’atto, certamente efficace”.

Secondo il presidente dell’Accademia della Crusca, il dibattito finora si è concentrato “sul preambolo alla proposta di legge 734, scritto in maniera scarsamente coerente rispetto al contenuto degli otto articoli, tale da far pensare soprattutto a una lotta contro singoli forestierismi introdotti nella lingua, e tale da attirare troppo l’attenzione sulle sanzioni legate al loro impiego”. Ma a parere di Marazzini, più che alla lotta contro l’uso della singola parola inglese, bisognerebbe porre attenzione “alla partita vera che si gioca nelle università”. Per questo avverte: “Sarebbe necessario distinguere nettamente l’introduzione di termini inglesi nell’uso comune quotidiano dei parlanti, dall’abuso di inglese nella comunicazione sociale pubblica delle istituzioni statali (a cui sarebbe stato meglio limitare l’intervento). Soprattutto occorrerebbe essere molto attenti a un fenomeno che non sembra essere stato colto con chiarezza dal legislatore”.

Il presidente dell’Accademia della Crusca spiega che “occorre individuare con preciso discernimento i diversi livelli e ambiti di discriminazione della nostra lingua” e ne identifica “almeno tre: 1) discriminazione nella burocrazia universitaria; 2) discriminazione nella didattica universitaria; 3) discriminazione nella ricerca universitaria”.

Marazzini accusa: “Nella burocrazia universitaria l’uso dell’italiano è impedito nelle domande di finanziamento internazionale, nazionale, e molto spesso (ed è il caso meno giustificabile) anche in sede locale. Le domande devono essere presentate tutte esclusivamente in inglese, pena la loro nullità. Se ne può trovare una parziale giustificare per le domande presentate a organi internazionali. Tuttavia anche per le domande di ricerca ‘nazionali’ la scelta dell’inglese in forma esclusiva è stata imposta negli ultimi anni, con le motivazioni più fantasiose, e persino invocando talora il principio che il giudizio di valutatori stranieri è sempre e sicuramente garanzia di imparzialità, indipendentemente dalla competenza e specificità, che invece per certe ricerche richiederebbe per forza anche la conoscenza dell’italiano. Reagendo a queste imposizioni prive di senso, abbiamo sempre sostenuto che non si tratta di eliminare l’inglese, ma allo stesso tempo non vi è ragione per eliminare l’italiano. La soluzione delle due lingue coesistenti garantirebbe, come è stato per anni, la massima trasparenza, e soddisferebbe appieno le esigenze di circolazione internazionale, salvaguardando allo stesso tempo i legittimi diritti della lingua ufficiale. Tuttavia questa argomentazione, nella sua lineare logica apparentemente indiscutibile, non ha mai incontrato il favore del ministero, che non si è nemmeno degnato di discuterla con noi. Perché il ministero non prova mai a considerare una linea diversa di azione, o almeno non spiega in maniera comprensibile le ragioni della propria scelta?”

“Mi pare che in questo caso, cioè il caso in assoluto più grave di abolizione forzosa dell’italiano nell’uso pubblico, se si volesse davvero invertire la tendenza, non sarebbe necessario introdurre la complicazione di nuove leggi (rimanendo fermi al palo in attesa della loro più o meno probabile approvazione). Basterebbe un atto formale immediato: chi emette i bandi, cioè il ministero, è perfettamente e facilmente in grado di condizionare la scelta della lingua. Lo ha fatto in passato, a danno dell’italiano. Può farlo oggi, a vantaggio dell’italiano – scrive Marazzini – I promotori delle nuove norme, se davvero amano l’italiano e vogliono fermare la sua ingiusta emarginazione, dovrebbero prima di tutto farsi promotori di una campagna di convincimento nei ministeri di un governo in cui sono rappresentate le forze politiche della loro stessa maggioranza”.

Quanto alla didattica universitaria affidata in maniera crescente all’inglese, “anche là dove non vi è alcuna utilità nella scelta, sarebbe più che sufficiente invitare il ministero dell’Università al rispetto di quanto stabilito dalla sentenza 42/2017 della Corte costituzionale, una sentenza che è stata sostanzialmente ignorata, se non volutamente e astutamente disattesa, nel silenzio del Parlamento e dei Governi. I promotori delle nuove leggi, dunque, potrebbero farsi carico di interrogazioni parlamentari, le quali non mancherebbero di rompere il velo d’oblio su di un problema ben noto e di vecchia data, ma bellamente trascurato”.

Infine sulla ricerca scientifica universitaria, “basterebbe lasciare libero spazio alle scelte dei ricercatori, evitando però di forzarle mediante una subdola discriminazione a priori nella valutazione dei ‘prodotti’ in lingua italiana. Si dovrebbe tener conto anche delle specificità di settore, connesse alla differenza tra discipline. Si eviterebbe così una spinta indiretta, dannosa e truffaldina, all’abbandono dell’italiano, lasciando spazio alla libera opzione degli studiosi, senza truccare le carte, come si fa oggi, quando si tende ad avvantaggiare ciò che magari è mediocre o di minor valore, e vanta solo il pregio di essere proposto in inglese. La valutazione si deve fare sui contenuti e sul loro peso reale, non a priori sulla scelta della lingua, scelta che, oltre al resto, marginalizza le altre lingue estere, a cominciare da quelle della Ue”.

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(con fonte AdnKronos)

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