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Garantire la qualità di vita delle persone con Hiv è un obiettivo prioritario ma sebbene non manchino le opzioni terapeutiche e anche qualora ci sia accessibilità al farmaco innovativo, in Italia ciò non significa necessariamente garanzia di accesso. A sottolineare il divario, generato anche dall’impatto della pandemia da Covid, Filippo von Schlösser, presidente dell’Associazione Nadir, realtà nata da pazienti, che si occupa di innovazione terapeutica e gestione clinica delle persone con Hiv.

Secondo i dati del Centro Operativo Aids (Coa) dell’Istituto superiore di sanità (Iss), nel 2021, le nuove diagnosi di infezione da Hiv, in Italia, sono state 1.770, pari a 3 nuovi casi per 100mila residenti. Ancora in troppi scoprono l’infezione quando questa è in fase avanzata. “Tra chi è risultato sieropositivo, il 58% aveva già la malattia in fase conclamata – specifica von Schlösser, che è anche membro del Comitato tecnico scientifico, sezione del volontariato per la lotta contro l’Aids del ministero della Salute -. Questi pazienti necessitano di un supporto per accedere ai servizi e sentirsi seguiti nel percorso di terapia. Le associazioni, infatti, svolgono un’attività a monte del problema Hiv, ma assistono anche la persona che si trova spiazzata dalla diagnosi”.

Poter scegliere quale percorso terapeutico sia più adatto non è una fase semplice. “L’Italia è uno degli ultimi Paesi in cui un farmaco innovativo è reso disponibile una volta approvato dall’Ema. Ci vuole anche un anno e mezzo affinché arrivi nel punto clinico meno centralizzato delle regioni italiane. Inoltre, parliamo di terapie da seguire a vita, che possono avere diversa efficacia nei pazienti e che quindi vanno modulate nel tempo e in sintonia con lo stile di vita della persona – continua von Schlösser -. Per questo avere tutte le opzioni terapeutiche a disposizione dà più strumenti per poter curare al meglio, senza incorrere in tossicità e mantenendo l’efficacia”.

Obiettivo primario per la persona con Hiv è raggiungere una carica virale non rilevabile, la cosiddetta undetectability, ovvero la non quantificazione del virus nel sangue periferico. “Raggiungere la non quantificazione del virus nel sangue è obiettivo primario: annullare la replicazione del virus nel corpo permette al sistema immunitario di ricominciare a fare il suo lavoro di difesa”, rileva il presidente di Nadir.

Se si parla poi di pazienti con ridotte opzioni terapeutiche, l’Italia ha uno scenario abbastanza buono, come afferma Antonella Castagna, primario dell’unità operativa di Malattie infettive dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. “La maggior parte dei nostri pazienti ha raggiunto la viremia negativa grazie alla terapia antiretrovirale e la sta mantenendo. Però ci sono soggetti più difficili, che meritano molta attenzione nel trattamento. Nella loro storia hanno accumulato mutazioni a una serie di farmaci e il virus che albergano è multiresistente. In questi casi, servono nuovi farmaci e con nuovi meccanismi di azione”.

Le terapie antiretrovirali a disposizione consentono di raggiungere e mantenere nel tempo la viremia negativa, ma alla base occorre che ci sia “un’alleanza tra medici, istituzioni, associazioni di pazienti. Dobbiamo far accedere al test il numero più grande di persone perché ciò significa avere una diagnosi precoce, iniziare subito la terapia, che in Italia è disponibile gratuitamente, e arrivare velocemente alla viremia negativa – sottolinea Castagna -. Per questo abbiamo bisogno di collaborazione anche dalle istituzioni, perché ci siano leggi, decreti e procedure che favoriscano pari accesso su tutto il territorio nazionale”.

L’obiettivo principale è quindi di raggiungere il cosiddetto U=U ovvero l’undetectable equals untrasmittable. Una condizione secondo la quale “una persona stabilmente in terapia antiretrovirale e con viremia negativa non trasmette infezione ad altri per via sessuale, e questa è una grande acquisizione raggiunta” evidenzia Castagna.

Un risultato, questo, che è più facilmente raggiungibile con pazienti che hanno appena iniziato la terapia, “ma più difficile in situazioni complesse: parliamo di pazienti con lunga esposizione alla terapia antiretrovirale o con fallimenti multipli. Però anche in questi casi possiamo raggiungere una viremia controllata o addirittura soppressa, da cui deriva che il virus non è più in grado di replicarsi, un vantaggio per la persona e per la comunità. Oggi abbiamo armi terapeutiche che possono aiutarci maggiormente per avere una buona qualità di vita, e nel futuro potremo somministrare farmaci long acting, per via intramuscolare o sottocutanea ogni due mesi e forse anche meno frequentemente. Un grande successo che dobbiamo gestire bene e difendere”, conclude il primario di Malattie infettive del San Raffaele.

Di fronte a prospettive terapeutiche ad alta efficacia, è importante però che si accentui un concetto fondamentale dalla grande ricaduta sociale. “Non passa abbastanza che l’assenza del virus nel sangue comporta la non trasmissibilità per via sessuale”, evidenzia il presidente dell’associazione Nadir, von Schlösser. “Serve da parte delle istituzioni un messaggio diretto alla popolazione che sia univoco e non interpretabile sulla non trasmissibilità del virus in presenza di viremia non quantificabile nelle analisi del sangue periferico. Questo è un concetto che già la microbiologa Françoise Barré-Sinoussi, che nel 1982 ha visto per la prima volta il virus dell’Hiv, ha sottoscritto nel 2017 a una conferenza internazionale all’European Clinical Society. Recentemente, la non trasmissibilità in queste condizioni è stata sancita anche da un consensus conference del 2019, firmato dalle associazioni, dal ministro della Salute e dalla Società italiana malattie infettive. Dopo pochi mesi però siamo entrati nel dramma Covid: come associazioni stiamo lavorando per rendere pubblico questo aspetto, anche utilizzando i social. È un passo culturale importante pure questo, per raggiungere gli obiettivi sanciti dalle Nazioni Unite, che prevedono la fine dell’epidemia da Aids per il 2030”, conclude von Schlösser.

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