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Tanto rumore per nulla con il Recovery plan. Almeno nella sanità e per la salute pubblica. I nove miliardi che per ora sono riservati al Servizio sanitario nazionale (il 4,6% della disponibilità totale nata soprattutto per esigenze sanitarie) si traducono per ogni anno in un terzo di quanto stanziato in emergenza nel 2020 e un quinto delle previsioni 2021 dalle varie leggi e decreti che si sono succedute nell’ultimo anno. Non un taglio, certo, ma un aumento quasi ordinario rispetto alle precedenti leggi di Bilancio.

La Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (FNOPI) punta il dito contro l’ennesimo sottofinanziamento, pur in presenza di nuovi fondi, dell’assistenza sanitaria e lancia l’allarme rispetto a un a nuova, più efficiente e di maggiore qualità organizzazione dei servizi e del personale che nei fatti si è dimostrato la carta vincente contro la pandemia.

“Finora con le risorse aumentate nell’emergenza dal punto di vista del personale si sono potuti tappare, e per adesso a suon di precarietà, solo in piccola parte i buchi di oltre dieci anni di carenze, ma senza fondi reali quelli che oggi sono definiti ‘eroi’ resteranno ancora soli ad affrontare l’ordinario e lo straordinario per la tutela della salute delle persone”, sottolinea la FNOPI.

La carenza di infermieri è quella che da anni la FNOPI dichiara: almeno 53mila unità di cui 31mila sul territorio e 22mila negli ospedali (senza contare il personale necessario a far funzionare i nuovi letti di terapia intensiva che solo dal versante infermieri sono almeno altre 17,mila unità).

La situazione attuale vede una media nazionale di 11 pazienti per infermiere con punte fino a 18-19 e nelle situazioni migliori non meno di 8 pazienti per infermiere, ma dovrebbero essere non più di 6. Il tutto con un aumento del rischio per i pazienti in situazioni ordinarie di oltre il 20 per cento, figuriamoci nella pandemia: mancano infermieri.

“In questo modo – sottolinea la presidente della Federazione Barbara Mangiacavalli – non si riuscirà a equilibrare il numero dei professionisti (non solo infermieri ovviamente) rispetto alle esigenze sempre maggiori dei cittadini sia per eventi straordinari come la pandemia, sia per la gestione di una nuova epidemiologia fatta sempre più di anziani, cronici, non autosufficienti e soggetti fragili, e non si potrà nemmeno dare a chi ha dimostrato di saper mettere a rischio la propria salute e anche, troppo spesso ormai, la propria vita, un compenso che consenta se non altro di raggiungere quello dei colleghi europei. Gli infermieri in Italia hanno buste paga medie da 1.400-1.600 euro al mese, poco più di 32mila euro annui, contro i 100mila euro della Gran Bretagna, i 41mila della Germania o anche semplicemente gli oltre 35mila di Francia e Spagna”.

“Siamo delusi – continua – e preoccupati: tutto ha un limite. Tranne, a quanto pare, il rischio e lo stress a cui devono sottoporsi i professionisti. E i pazienti, i quali di situazioni di questo tipo pagano le spese in prima persona con un’assistenza a scartamento ridotto e spesso servizi non all’altezza delle loro esigenze reali di salute”.

Per non parlare dell’informatizzazione della sanità, ritenuta una carta vincente per il futuro, ma destinata senza risorse reali a restare ancora al palo.

“Ci ripensi il Governo – sollecita Mangiacavalli –  ascolti le ragioni e le richieste del ministro della Salute che ha ben chiara la situazione e le esigenze, valuti quello che è accaduto durante la pandemia e metta sul piatto della bilancia le necessità e le carenze emerse. Non rilanciare davvero il Servizio sanitario nazionale significa vivere un déjà-vu di tempi nemmeno troppo lontani, ma che professionisti e cittadini speravano ormai passati”.

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