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La nostra epoca è caratterizzata da momenti di gravi crisi, anche geopolitiche, in varie parti del mondo; dalle conflittualità in Medio Oriente fra Iran e Riyad, alle pretese di Erdogan in Siria per debellare i Curdi, ai sommovimenti migratori che dalle aree subsahariane si riversano in Mediterraneo, e via dicendo, che sottendono in alcuni casi lotte di potere sul piano politico e religioso, in altri condizioni miserevoli di vita, ma quasi tutte con conseguenti vessazioni delle libertà basilari delle persone più indifese.
E in quei contesti spesso la realtà di quelle situazioni è fuorviata e anche negletta;  se è vero che risulta assai complicato esprimere opinioni oggettive e calzanti quando si tratta di popoli con culture assai diverse, anche geograficamente del tutto lontani, è anche vero che le difficoltà maggiori sono connesse con la sempre più frequente cesura imposta  nelle comunicazioni e nelle reali informazioni da chi detiene il potere; tuttavia resta un valore primario cercare di diffondere le notizie disponibili, con la massima correttezza e obiettività: un dovere essenziale per coloro deputati a fare “i cani da guardia” della libertà e della democrazia.
Se non è facile comprendere appieno le rivolte mediterranee, cioè quelle “di casa”, comprese quelle più recenti delle cosiddette Primavere Arabe, è ancora più difficile capire per la complessità delle spinte e ragioni politiche e geostrategiche, quelle che riguardano oggi l’altra faccia del pianeta: la crisi di Hong Kong e, ancor prima, quella di Taiwan.
Oltre a motivazioni di ordine geopolitico con interessi di “esterni” che alimentano in qualche misura quelle rivolte, i partecipanti alle proteste rifiutano la specifica e sovrastante sovranità della Cina popolare, ribadendo la propria indipendenza sul piano politico e sociale, ma anche in quello giuridico.
D’altronde i rivoltosi non sembrano dilettanti allo sbaraglio, ma assai ben organizzati; le loro operazioni imprevedibili ma quasi militari fanno pensare che esistono influenze e supporti esterni finalizzati ad indebolire le mire e le ambizioni strategiche della Repubblica Popolare centrale.
Nella ex colonia britannica di Hong Kong, l’innesco della rivolta studentesca e più in generale popolare, ha riguardato, fra l’altro, la proposizione di una norma sull’estradizione che presupponeva il trasferimento a Pechino di cinesi giudicati colpevoli di reati commessi in sede locale.
Il pericolo più grave percepito tuttavia da Pechino è che tali rivolte si propaghino nelle varie minoranze limitrofe nel continente cinese con un effetto domino, destabilizzando i centri industriali a partire dal Sud del Paese: per la Cina, Hong Kong e Taiwan non rappresentano solo dei fiori all’occhiello economico-industriale, ma grandi poli finanziari mondiali essenziali per la crescita ed il futuro stesso della Cina, oltreché snodi geopolitici di enorme valenza.
Per capire meglio, partiamo dalla situazione, apparentemente oggi più calma, di Taiwan, una piccola nazione insulare che dista circa 100 miglia dalla Cina, modello di un insieme di città moderne, fra cui Taipei la capitale, con molti templi antichi cinesi e con un fervore economico e industriale legato all’informatica e alle tecnologie più avanzate. Insieme con altre isole limitrofe (le Penghu, le Matsu, ecc.) formano lo Stato della Repubblica di Cina, un’entità politica distinta ma legata in qualche misura alla Repubblica Popolare della Cina continentale di Xi-jinping. La sua indipendenza è da tempo motivo di accesi contenziosi soprattutto circa il suo stato politico pressoché autonomo che ambisce a far divenire quell’insieme, una vera e propria Repubblica, quella di Taiwan, uno Stato sovrano riconosciuto dalla comunità internazionale.
Quell’isola ha una storia assai complessa anche sotto il profilo culturale, influenzata dal modus vivendi giapponese; Taiwan infatti tornò alla Cina alla fine della 2^ Guerra Mondiale con la resa del Giappone, dopo oltre mezzo secolo, dal 1895, di dominio giapponese; la Cina instaurò quindi un regime militare che creò aspre tensioni tra la popolazione locale ed il governo centrale, con repressioni e massacri spesso feroci. Non sono mancati reiterati tentativi, anche dopo il Millennio, da parte dei taiwanesi, di promuovere una modifica alla loro Costituzione per legittimare un autogoverno dell’isola che, provocando elevata irritazione della R.P.C., potrebbe portare ad un’azione militare cinese nei loro confronti. Mutuando in qualche misura il massiccio investimento della Cina nella Difesa, Marina ed Aeronautica in particolare, Taiwan sta dando un grosso impulso alle sue FFAA cercando di competere con una strategia militare che ha poco senso perché i termini di raffronto sono incommensurabilmente a favore di Pechino che, volendo, potrebbe pensare all’invasione di quell’isola, ancorché potrebbe essere molto rischioso. Le FFAA taiwanesi potranno servire come deterrenza e per evitare una capitolazione in breve tempo consentendo quindi l’intervento dei paesi alleati, ma certamente non possono, nonostante la corsa così costosa agli armamenti, pensare di competere e combattere contro un colosso come la Cina. Né risulta che le stesse siano mai state invitate a partecipare alle maggiori esercitazioni organizzate nel Pacifico dagli americani che avrebbe potuto conferire una sorta di “riconoscimento” del loro status.
Ad evitare un’invasione esiste comunque una forte deterrenza, in quanto a valle dell’armistizio del secondo conflitto mondiale, fu approvata una legge dal Congresso USA che obbligava gli americani a difendere militarmente Taiwan da un eventuale attacco cinese: una norma geopolitica, oggi di grande valore sul piano strategico, considerando le attuali tensioni USA-Cina e la disponibilità di ospitare formalmente una “base avanzata” statunitense a Taiwan, assai prossima al continente cinese. Per fortuna loro c’è “lo zio Sam”!

Hong Kong ha una storia diversa; geograficamente composta da un’isola, da una penisola e di altre 200 isole, ha una straordinaria economia con un porto che è al 5° posto per importanza nel mondo; dal 1842 diventa una colonia britannica e fino al 1997 viene controllata dal Regno Unito e governata secondo le sue leggi coloniali, dopodiché passa sotto il controllo della Cina seppure con un’amministrazione piuttosto autonoma. E’ noto, in quanto lo viviamo quotidianamente, che i rapporti fra la Cina continentale e H.K. non siano chiaramente facili in quanto il Partito Comunista Cinese e quindi la R.P.C. hanno cercato, e cercano, di rafforzarne la presenza ed influenza nel loro proprio sistema politico, economico e giudiziario.
Già nel 2014, in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della restituzione di H.K. alla Cina, venne organizzata la “rivoluzione degli ombrelli”, con manifestazioni di disobbedienza civile, le cui finalità erano di ottenere una maggiore autonomia e libertà democratiche, avversando altresì apertamente le riforme elettorali prospettate da Pechino. Comunque, nel 2017 si tennero nuove elezioni per il nuovo governatore e fu scelta Carrie Lam, ancora in carica, decisamente vicina al regime di Xi.
Le nuove manifestazioni e proteste, cominciate lo scorso Maggio, riguardavano l’opposizione popolare ad un emendamento della legge sull’estradizione che, qualora approvato, consentiva alla Cina di processare gli accusati locali di H.K. di alcuni gravi crimini (omicidio, stupro, ecc..), ma le richieste più radicali dei dimostranti erano quelle di avere elezioni dirette e libere della dirigenza politica, non più soggette a Pechino.  Comunque, tale emendamento avrebbe significato una pesante ingerenza cinese nel sistema giuridico di H.K. con il rischio che venisse applicato dalla R.P.C. per usarlo in modo più ampio e surrettizio contro i suoi oppositori. La sfiducia dei rivoltosi è verso Pechino, ma al tempo stesso nei riguardi del governo locale che è divenuto il principale obiettivo della guerra civile ormai in corso.
La governatrice Lam per cercare di spegnere la rivolta annunciò successivamente che l’emendamento in parola sarebbe stato sospeso; un doppio autogol in quanto oltre ad avere deluso Pechino, si era inimicata vieppiù gli attivisti increduli anche per la continua repressione da parte della polizia. Le proteste sempre più mirate contro la Cina per una più ampia autonomia, con gli studenti che si organizzano coordinandosi sui social  (da Telegram a Facebook…), con azioni imprevedibili, procedono in parallelo anche contro la governatrice di cui sono state richieste a gran voce le dimissioni, mentre il governo centrale di Pechino comincia a mostrare apertamente la sua contrarietà con segnali preoccupanti, rinforzando le guarnigioni dell’esercito cinese nella zona di Shenzhen, appena oltre il confine. Anche le recentissime dichiarazioni di Xi non invitano certo ad una pacifica soluzione :”chiunque cerchi di separare una regione dalla Cina perirà, il suo corpo schiacciato e le sue ossa ridotte in polvere”.
Certo non sono più i tempi truci di Piazza Tiennamen di 30 anni fa e oggi sembra prevalere un approccio cinese più “soft” e prudente per evitare condanne internazionali, tant’è che la Cina non ha dichiarato neppure lo stato di emergenza invocato da alcuni, nel presupposto prevalente che le rivolte perderanno gradualmente il supporto popolare e quindi eventualmente si dissolveranno. Va anche detto che il movimento studentesco non è sostenuto ufficialmente dalle locali università, né ha una palese partecipazione della classe operaia e neppure dei numerosi migranti, ma ha il sostegno delle cospicue ONG, del ceto medio, delle elite internazionali che operano sottotraccia e di Taiwan che sta lavorando a fianco dei rivoltosi di H.K.
A sostenere invece Pechino e con esso lo status- quo ci sono varie organizzazioni, spesso malavitose e criminali che di fatto governano l’economia di H.K. con attività illegali, ma anche più o meno legittimate, che vanno dal gioco d’azzardo allo spaccio di droga, alla prostituzione, alla contraffazione di giocattoli e di farmaci, ecc., che potrebbero avere un ruolo nella soluzione della crisi, aiutando il governo centrale nell’eventuale processo di repressione.
Una riflessione di conseguenza appare necessaria: chi sono gli interessati “esterni” alle attuali destabilizzazioni?
Già l’ambiguità di Pechino con l’adozione di un approccio “soft” verso H.K., ovvero di una reazione militare ha prodotto un grave danno alla politica cinese, notoriamente invasiva a livello globale. In primis ci sono gli USA che hanno tutto l’interesse ad alimentare tale percezione mondiale nei confronti di Pechino; poi c’è Taiwan che sulla base della grande eco della rivolta di H.K. cerca di pubblicizzare la sua indipendenza dalla Cina. Non si deve, quindi, dimenticare il Giappone che è interessato ad indebolire la proiezione della Cina nel Pacifico, e con esso le due Coree; anche la Gran Bretagna agevola apertamente i dimostranti col pensiero rivolto ad un possibile, quanto irrealistico, recupero della vecchia colonia, per tacere del Tibet e di altri paesi non proprio “allineati”.
In definitiva e al di là di eventuali interessi, il riconoscimento dell’esistenza di Taiwan e delle istanze di H.K. nel rispetto delle libertà e della democrazia, con una convivenza pacifica, è obiettivamente auspicabile a favore di quei popoli, ma Xi per contro sogna una Cina unica e unita, accettando al massimo lo slogan di Mao “un Paese, e due sistemi” già attuato nei confronti di H.K.: per i taiwanesi questo rappresenta un vero incubo dato che l’erosione delle libertà è sotto gli occhi di tutti, e anche l’ONU che già è tetragono nel riconoscerne la sovranità, ne avrebbe buon gioco.

Dunque le istanze di quelle terre “pacifiche” (intese in tal senso solo geograficamente), con economie sorprendenti, assetate di democrazia ed autonomia, ribelli allo strapotere della R.P.C. e pronte a combattere per i loro diritti umani e sociali, sembrano irrilevanti e quasi in contrasto con il principio Universale dei Diritti dell’uomo e più in particolare di quello della autodeterminazione dei popoli di rooseveltiana statuizione e memoria. Non basta infatti che uno nasca per avere diritto alla libertà ed alla dignità umana, anzi sembra, nonostante tutto, che la piega della storia propenda sempre più per il potere del più forte a scapito dei deboli e punti alla loro “non esistenza”. Ciò fino al punto di considerare agli occhi del mondo quell’isola e quella penisola come qualcosa che “non c’è”, che non debbano esistere se non piegati alla volontà dei più potenti che vogliono una Cina unica. E questa percezione si sposa con la scarsa nostra consapevolezza e condivisione verso quei popoli, per noi così lontani, dimenticando le loro desiderata del tutto sacrosante; lo dimostra anche l’Ue che ancora una volta si smarca con l’assenza di una univoca posizione nella politica estera, ma anche l’Italia ha fatto la sua parte con la firma improvvida del recente  MoU con Pechino sposandone le visioni egemoniche della Via della Seta che, per la verità, non è stata molto apprezzato da H.K. e tanto meno dai taiwanesi.
Non sappiamo ancora quale sarà il responso di Giano, l’ambiguo dio del passato e del presente, se annuirà verso l’inasprimento della crisi oppure verso la pace cinese, ben sapendo invece che la pace – figlia di compromessi, diffidenze storiche, sospetti e interessi enormi come in questo contesto – spesso presenta dei “costi interni e esterni” addirittura superiori a quelli di un conflitto aperto e dichiarato.
Nell’attesa di quel responso, il mondo occidentale, anziché prendere posizione, si limita a guardare -dalla situazione turca-curda, a quella cinese – senza neppure condividere idealmente il coraggio e le lotte di quei popoli che aspirano legittimamente alla loro autodeterminazione; ma fino a quando?
Finché non verrà intaccata la sicurezza e la libertà di tutti: un Occidente rispettabile e davvero civile, Europa compresa, dovrebbe comportarsi e qualificarsi un poco diversamente!

Giuseppe Lertora

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